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agonizzante.

      Si rimise a sedere, guardandosi attorno per vedere se ci fosse alcun segno di presenza umana.

      “AIUTO!” gridò a pieni polmoni.

      Non giunse alcuna risposta. Gwen si trovava nel mezzo dei campi, lontana da tutti, e il suo grido fu assorbito dagli alberi e dal vento.

      Cercava sempre di essere forte, ma doveva ammettere che ora era terrorizzata. Non tanto per lei quanto per il bambino. E se nessuno li avesse trovati? Anche se fosse riuscita a partorire da sola, come avrebbe mai potuto essere capace di camminare fino al castello con il piccolo? Aveva il terribile presentimento che sia lei che suo figlio sarebbero morti lì.

      Ripensò al Mondo Inferiore e al fatidico momento in cui aveva liberato Argon, dovendo fare quella scelta. Il sacrificio. La decisione insopportabile che era stata costretta a prendere, dovendo scegliere tra suo figlio e suo marito. Ora piangeva, ripensando alla decisione che era stata fatta. Perché la vita chiedeva sempre dei sacrifici?

      Gwendolyn trattenne il fiato mentre improvvisamente il bambino si spostava dentro di lei e un dolore terribile la trapassava dalla testa fino ai piedi. Si sentiva come un albero di quercia che veniva diviso a metà dall’interno.

      Gwendolyn si inarcò e si lamentò guardando il cielo e cercando di immaginarsi da qualsiasi altra parte ma non lì. Cercò di tenere un pensiero fisso in mente, qualcosa che le desse un senso di pace.

      Pensò a Thor. Vide loro due insieme, il primo giorno che si erano incontrati, in cammino in mezzo a quegli stessi prati, per mano, con Krohn che saltellava tra loro. Cercò di mantenere vivido nella propria testa quel quadro, cercando di concentrarsi sui dettagli.

      Ma non funzionava. Aprì gli occhi di colpo, mentre il dolore la riportava alla realtà. Si chiese come potesse mai essere finita lì, in quel luogo, tutta sola. Poi ricordò Aberthol che le comunicava l’imminente morte di sua madre. Quindi il suo scatto per raggiungerla. Anche sua madre stava morendo in quel momento?

      Improvvisamente Gwen gridò sentendosi quasi morire e abbassando lo sguardo vide la testa del bambino che faceva capolino. Si appoggiò indietro e gridò di nuovo, continuando a spingere, sudando e facendosi completamente rossa in volto.

      Spinse un’ultima volta e improvvisamente uno strillo squarciò l’aria.

      Lo strillo di un neonato.

      Improvvisamente il cielo si fece nero. Gwen sollevò lo sguardo e guardò terrorizzata quel perfetto cielo estivo che, senza alcun preavviso, si mutava in notte. Vide i due soli improvvisamente eclissati dalle due lune.

      Un’eclisse totale di entrambi i soli. Gwen ci credeva a malapena: sapeva benissimo che  accadeva solo una volta ogni diecimila anni.

      Impaurita si vide immersa nell’oscurità. Improvvisamente il cielo si riempì di lampi, strisce di luce che scendevano verso il basso, e Gwen si sentì colpire da piccole palline di ghiaccio. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, fino a che comprese che stava grandinando.

      Sapeva bene che tutti questi segni erano un fortissimo presagio che si stava verificando proprio nel momento in cui aveva partorito. Guardò il suo bambino e capì subito che era ancora più potente di quanto lei si aspettasse. Che veniva da un altro mondo.

      Quando emerse, piangendo, Gwendolyn istintivamente si allungò e lo afferrò tirandoselo al petto prima che potesse cadere tra l’erba e il fango. Lo protesse dalla grandine avvolgendolo tra le proprie braccia. Il bimbo vagì e in quel preciso istante la terra iniziò a tremare. Gwen sentì il suolo scuotersi e in lontananza vide dei massi che rotolavano lungo i versanti delle colline. Sentiva il potere di quel bambino scorrerle dentro e condizionare l’intero universo.

      Mentre lo teneva stretto a sé cominciò a sentirsi più debole, percependo che stava perdendo troppo sangue. Le girava la testa e le mancavano le forze per muoversi. Era a malapena capace di tenere in braccio il bambino che non smetteva di gridare. Ormai non sentiva quasi neanche più le proprie gambe.

      Ebbe la tremenda premonizione che sarebbe morta lì, su quei prati, con il bambino. Non le interessava più di se stessa, ma non poteva concepire l’idea che il piccolo morisse.

      “NO!” urlò, raccogliendo gli ultimi rimasugli di forza che aveva per gridare al cielo.

      Quando lasciò cadere la testa all’indietro, giacendo completamente stesa a terra, giunse un grido in risposta al suo. Ma non era un grido umano. Era il grido di un’antica creatura.

      Gwen iniziò a perdere conoscenza. Sollevò lo sguardo mentre gli occhi le si stavano chiudendo, e vide quello che le parve un’apparizione del cielo. Era una bestia enorme che scendeva verso di lei, e si rese conto a malapena che si trattava della creatura che amava.

      Ralibar.

      L’ultima cosa che Gwen vide, prima che le palpebre le calassero del tutto, fu Ralibar che scendeva con i suoi grandi occhi verdi e brillanti e le sue antiche scaglie rosse, gli artigli protesi in avanti verso di lei.

      CAPITOLO DUE

      Luanda era paralizzata per lo shock e guardava, tenendo ancora stretto il pugnale insanguinato in mano, il cadavere di Koovia, incredula di ciò che aveva appena fatto.

      Tutti nella sala della festa fecero silenzio e la fissarono, meravigliati, senza muoversi di un solo millimetro. Guardavano tutti il cadavere di Koovia ai suoi piedi, l’intoccabile Koovia, il grandioso guerriero del regno dei McCloud, secondo in abilità solo a re McCloud. L’atmosfera era così tesa nell’aria che si sarebbe potuto tagliarla con un coltello.

      Luanda era la più scioccata di tutti. Sentiva la mano che le bruciava, il pugnale ancora in pugno. Il calore le pervadeva il corpo mentre si sentiva euforica e terrorizzata alla stesso tempo per aver appena ucciso un uomo. Era soprattutto fiera di ciò che aveva fatto, orgogliosa di aver fermato quel mostro prima che potesse mettere mano su suo marito o sulla sposa. Aveva ottenuto ciò che meritava. Tutti quei McCloud erano dei selvaggi.

      Si udì un grido improvviso e Luanda sollevò lo sguardo vedendo il primo guerriero di Koovia scattare in azione a pochi passi da lei, la vendetta negli occhi. Sollevò in aria la sua spada intenzionato a trafiggerle il petto.

      Luanda era ancora troppo frastornata per reagire e quel guerriero si mosse velocemente. Si preparò sapendo che nel giro di un attimo avrebbe sentito il freddo acciaio perforarle il cuore. Ma non le interessava. Qualsiasi cosa le accadesse non contava più nulla ora che aveva ucciso quell’uomo.

      Luanda chiuse gli occhi mentre la lama calava verso di lei, preparandosi a morire. Ma con sorpresa udì invece un clangore metallico.

      Aprì gli occhi e vide Bronson che si faceva avanti sollevando la propria spada e bloccando il colpo dell’altro soldato. Il gesto la sorprese: non pensava che ne fosse capace o che con la sola mano buona potesse fermare una stoccata così potente. Soprattutto era commossa di rendersi conto che le voleva bene, tanto da rischiare la propria vita.

      Bronson fece roteare la spada con destrezza e anche con una sola mano aveva un tale potere e una tale precisione da riuscire a trafiggere il guerriero al cuore, uccidendolo sul posto.

      Luanda stentava a crederci. Ancora una volta Bronson le aveva salvato la vita. Si sentiva profondamente in debito con lui e provò una rinnovata ondata di amore nei suoi confronti. Forse era più forte di quanto lei avesse mai immaginato.

      Le grida si levarono da entrambe le parti della sala mentre i McCloud e i MacGil si lanciavano gli uni contro gli altri, ansiosi di vedere chi uccidere per primo. Tutti i pretesti di civiltà che si erano manifestati durante la giornata di nozze e le festività della sera erano spariti. Ora era la guerra: guerriero contro guerriero, tutti scaldati dal bere, rinvigoriti dalla rabbia e dall’oltraggio che i McCloud avevano tentato di perpetrare cercando di violare la sposa del clan MacGil.

      Gli uomini balzarono sullo spesso tavolo di legno, desiderosi di uccidersi, pugnalandosi e prendendosi per il viso, lottando corpo a corpo a terra, facendo cadere al suolo il cibo e il vino. La stanza era così piena, zeppa di persone che stavano spalla contro spalla senza quasi neanche lo spazio per muoversi. Tutti sbuffavano e colpivano, gridavano e strillavano e la scena si tramutò in un caotico bagno di sangue.

      Luanda

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