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spalle larghe e una figura imponente, oltre a una smorfia torva sul volto.

      “Reid Lawson,” disse l’uomo alto sulla sinistra. “È lei?” Il suo accento sembrava iraniano, ma era poco percettibile, suggerendo che avesse passato molto tempo lontano da casa.

      A Reid si seccò la gola notando, al di là delle loro spalle, un furgoncino grigio lasciato in moto davanti al marciapiede, con le luci spente. “Uhm, mi spiace,’” rispose. “Credo che abbiate sbagliato casa.”

      L’uomo alto sulla destra, senza togliere lo sguardo da Reid, alzò un cellulare verso i suoi due soci. L’uomo a sinistra, senza fare domande, fece un singolo cenno con il capo.

      Senza alcun preavviso, l’uomo più grosso avanzò, con una rapidità sorprendente per la sua stazza. Una mano pesante scattò verso la gola di Reid. Il professore indietreggiò senza pensare, barcollando nell’ingresso e incespicando nei propri piedi. Recuperò l’equilibrio, sfiorando il pavimento con le dita.

      Mentre scivolava all’indietro, i tre uomini erano entrati in casa sua. Il panico lo riempì, pensando solamente alle figlie addormentate nei loro letti al piano di sopra.

      Si voltò e attraversò di corsa l’ingresso, fino alla cucina, dove superò l’isola. Si lanciò un’occhiata alle spalle, e vide che gli uomini gli stavano dando la caccia. Il cellulare, pensò disperatamente. Era nel suo studio, sulla scrivania, e gli aggressori gli bloccavano la strada.

      Doveva portarli via dalla casa e dalle ragazze. Sulla sua destra c’era la porta che dava sul cortile. La aprì di scatto e corse sulla veranda. Uno degli uomini imprecò in una lingua straniera, arabo, immaginò, mentre lo seguivano. Reid saltò sopra la ringhiera della veranda e atterrò sul prato. All’impatto un lampo di dolore gli esplose nella caviglia, ma lo ignorò. Raggiunse l’angolo della casa e si appiattì contro la parete di mattoni, cercando disperatamente di acquietare il suo respiro ansimante.

      I mattoni erano gelidi al tocco e la leggera brezza invernale tagliava come un coltello. Aveva già le dita dei piedi insensibili per il freddo, perché era corso fuori di casa solo con i calzini. Si sentiva gli arti scossi da brividi.

      Udiva gli uomini che sussurravano, con voce bassa e urgente. Contò quanti erano: uno, due e tre. Erano fuori di casa. Bene: significava che volevano solo lui e non le ragazze.

      Doveva mettere le mani su un telefono. Non poteva tornare dentro casa senza mettere in pericolo le ragazze e non poteva neanche bussare alla porta di un vicino. No… ma c'era un telefono per le emergenze montato su un palo della luce lungo la strada. Se fosse riuscito ad arrivarci…

      Fece un profondo respiro e scattò nel cortile buio, osando attraversare la luce gettata dai lampioni. La sua caviglia pulsò in segno di protesta e lo shock del freddo gli punzecchiò le piante dei piedi, ma si costrinse a muoversi il più in fretta possibile.

      Reid si lanciò un’occhiata dietro le spalle. Uno degli uomini alti lo aveva visto. Gridò ai suoi soci, ma non si gettò all’inseguimento. Strano, pensò Reid, ma non si soffermò a farsi domande.

      Raggiunse il telefono per le emergenze, aprì la sua scatola e premette il pollice sul pulsante rosso, che avrebbe mandato un allarme alla centrale più vicina del 911. Si guardò di nuovo alle spalle. Non vide nessuno degli uomini.

      “Pronto?” sibilò nella cornetta. “Qualcuno mi sente?” Dove era la luce? Non avrebbe dovuto accendersi una luce quando si premeva il pulsante di chiamata? Il telefono era attivo? “Mi chiamo Reid Lawson, tre uomini mi stanno inseguendo, vivo al…”

      Una mano robusta strinse i corti capelli castani di Reid e lo tirò all’indietro. Gli si bloccarono le parole in gola e si trasformarono in un rantolo.

      Un momento dopo, c’era una stoffa ruvida sulla sua faccia, che lo accecava—una sacca sulla sua testa—e allo stesso tempo le sue braccia gli erano state tirate dietro la schiena e bloccate da manette. Cercò di lottare, ma era paralizzato, i polsi piegati fino a far male.

      “Aspettate!” riuscì a gridare. “Vi prego…” Un colpo gli si abbatté sull’addome con tanta forza da lasciarlo senza fiato. Non riusciva a respirare, né tantomeno parlare. Un vortice di colore gli esplose davanti agli occhi e quasi svenne.

      Poi cominciarono a trascinarlo. I suoi piedi nei calzini scivolavano sul cemento. Lo infilarono nel furgone e chiusero la portiera. I tre uomini si dissero qualcosa nella loro lingua sconosciuta con tono d’accusa.

      “Perché?” riuscì a chiedere alla fine.

      Gli infilarono un ago acuminato nel braccio e tutto il mondò svanì.

      CAPITOLO DUE

      Cieco. Freddo. Scosso. Assordato. Confuso. Dolorante.

      La prima cosa che Reid notò svegliandosi fu che il mondo era buio, non riusciva a vedere niente. La puzza acre di carburante gli riempiva le narici. Cercò di muovere le membra doloranti, ma le mani erano legate dietro la sua schiena. Stava congelando, ma non c'era un alito di vento, solo aria fredda, come se fosse seduto in un frigo.

      Lentamente, come se emergessero da una nebbia, i ricordi di quello che era successo gli tornarono alla mente. I tre uomini mediorientali. La sacca sulla testa. L’ago nel braccio.

      Il panico prese il sopravvento e cominciò a tirare le manette e ad agitarsi. Gli si accesero di dolore i polsi, dove il metallo delle manette gli tagliò la carne. La caviglia pulsava, spedendo ondate di sofferenza su per la sua gamba. Aveva un’intensa pressione nelle orecchie e non riusciva a sentire nulla se non il rombo di un motore.

      Per un breve istante provò una strana sensazione allo stomaco, come dovuta a un’accelerazione verso l’alto. Era su un aereo. E a giudicare dal rumore non era un normale aereo passeggeri. Il rombo, l’intenso rombo del motore, la puzza di carburante… capì che doveva trovarsi su un aereo cargo.

      Per quanto tempo era rimasto svenuto? Che cosa gli avevano iniettato? Le ragazze erano al sicuro? Le ragazze. Gli salirono le lacrime agli occhi, mentre sperava contro ogni buon senso che stessero bene, che la polizia avesse ricevuto il suo messaggio, che le autorità fossero state mandate a casa sua…

      Si agitò sul suo sedile di metallo. Nonostante il dolore e la gola chiusa, provò a parlare.

      “Sa-salve?” Fu poco più di un bisbiglio. Si schiarì la gola e provò di nuovo. “Salve? C’è qualcuno?” Si rese conto che il rumore del motore avrebbe coperto la sua voce e nessuno che non fosse stato seduto accanto a lui lo avrebbe sentito. “Salve!” provò a gridare. “Vi prego… qualcuno mi dica che…”

      Una secca voce maschile gli sibilò qualcosa in arabo. Reid sussultò. L’uomo era vicino, a meno di un metro di distanza.

      “Ti scongiuro, dimmi che cosa sta succedendo,” supplicò. “Che cosa volete? Perché mi state facendo questo?”

      Un’altra voce gridò minacciosamente nella stessa lingua, quella volta dalla sua destra. Reid sussultò per il duro rimprovero. Sperò che il movimento dell’aereo mascherasse il tremore del suo corpo.

      “Avete preso la persona sbagliata,” disse. “Che cosa volete? Denaro? Non ne ho! Posso… aspettate!” Una mano robusta si chiuse in una morsa attorno al suo braccio e fu strappato dal suo sedile. Barcollò, cercando di rimanere in piedi, ma l’instabilità dell’aereo e il dolore alla caviglia ebbero il sopravvento. Gli cedettero le ginocchia e cadde su un fianco.

      Qualcosa di solido e pesante lo colpì al corpo. Il dolore si allargò per tutto il suo busto. Cercò di protestare, ma gli salirono alla bocca solo singhiozzi intellegibili.

      Un altro stivale gli atterrò sulla schiena. Poi un altro, al mento.

      Nonostante la situazione tremenda, Reid fu colto da uno strano pensiero. Quegli uomini, le loro voci, i loro colpi, tutto suggeriva una vendetta personale. Non si sentiva semplicemente attaccato. Si sentiva odiato. Erano arrabbiati, e la loro rabbia era diretta precisamente verso di lui.

      Il dolore si allontanò, lentamente, e lasciò spazio a un freddo torpore che lo avvolse completamente mentre perdeva coscienza.

*

      Dolore.

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