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Carmen! Sei ubriaca fradicia! Ti porto subito via, forza, non puoi restare qui in queste condizioni!».

      Aveva parlato accavallando le parole, quasi balbettando, con una voce stridula: sotto stress, l’aplomb di Ronald, che tanto piaceva a Carmen, svaniva miseramente.

      La ragazza si era immobilizzata per qualche secondo, cedendo poi tutt’a un tratto e abbandonandosi fra le braccia dell’amico, che la stese sul tappeto, incosciente.

      Finalmente tornò la corrente e la musica, inaspettata ed esplosiva, riprese a pompare, contornata dalle grida ubriache dei ragazzi al piano terra.

      Ronald lasciò per un attimo Carmen e corse da basso per recuperare un po’ d’acqua; entrando nel salone da ballo, ebbe l’impressione che i muri tremassero, la terra sobbalzasse, la sua testa fosse trafitta da una gelida lama di spada, ma trovò comunque la forza per attraversare la baraonda di ragazzi che avevano ripreso a ballare e raggiunse il barman, cui chiese una bottiglietta d’acqua fresca.

      Risalì di corsa da Carmen, che permaneva stesa sul tappeto nell’angolo del salone, e vide in quel momento uscire da una stanza un uomo alto, riccio, con l’aria disordinata e l’aspetto trafelato.

      Sembrava avesse davvero fretta, quell’uomo, ma era l’unico a cui Ronald potesse rivolgersi, in quel momento di necessità.

      Gli chiese nervosamente un aiuto, incrociando il suo sguardo sfuggente, ma non ricevette alcuna risposta dal tipo, che scese di corsa le scale, dileguandosi nella ressa del piano terra.

      «Stronzo!» gli gridò Ronald, pur con la voce coperta dal volume della musica, prima di rifocalizzare la propria attenzione su Carmen, versandole poco a poco l’acqua fresca sul viso e forzandola di tanto in tanto a berne qualche sorso.

      La ragazza si svegliò tossendo, appoggiandosi con fatica sulle spalle dell’amico per riuscire drizzare la schiena, e cercando aria a pieni polmoni.

      «Carmen, svegliati, ti prego!».

      Le mani di Ronald tremavano per lo stato di tensione nel quale era entrato e la sua voce sembrava rimbombare sotto l’alto soffitto del salone, nonostante da sotto arrivassero gli echi della musica sparata dal dee-jay.

      Carmen sbatté gli occhi in stato di semi-incoscienza, prima di inarcare d’un tratto la schiena e vomitare sul tappeto persiano.

      Ronald fece un salto all’indietro per non sporcarsi, trattenendo a sua volta un conato e sforzandosi al contempo di non lasciarle la testa, che sembrava potersi staccare da un momento all’altro, tanto era privo di forze il corpo della ragazza.

      «Portami a casa, Ronald. Per favore» fu la supplica di Carmen, masticata fra i denti, la fronte imperlata di sudore, i capelli zuppi e spettinati.

      «Certo, Carmen. Ti porto subito».

      Sollevò di peso l’amica, tenendola in braccio e sorreggendole la nuca, poi scese lentamente le scale, sentendo aumentare a ogni gradino il volume della musica proveniente da basso.

      Attraversò il più rapidamente possibile il salone da ballo al piano terra e proseguì con fermezza per il sentiero nel parco, giungendo al parcheggio stanco e ansimante.

      Fortunatamente, la Volvo che all’arrivo aveva impedito a Carmen di scendere era già ripartita.

      Spalancò la portiera posteriore della Due Cavalli, adagiò delicatamente Carmen sul sedile bagnato - il tettuccio dell’auto era rimasto aperto per tutto il temporale - e si avviò verso la sua casa, chiedendole sottovoce di non sporcargli la macchina, nei limiti del possibile.

      Da dietro, Carmen rispose affermativamente, con un semplice cenno del capo, prima di addormentarsi di colpo con un inaspettato accenno di sorriso sul volto, ebbra come mai lo era stata in vita sua.

      Arrivata a destinazione, accompagnata fino alla soglia da Ronald, riuscì a malapena a entrare nell’appartamento, avvolta dal silenzio della notte, prima di crollare nel proprio letto ancora vestita.

      Mar, china sui libri nella camera adiacente, non si accorse di nulla.

      Si abbandonò a sogni turbolenti, di cui non sarebbe comunque rimasta traccia il giorno successivo.

      

      

      Un’indagine complessa

       I wish I was a sailor with someone who waited for me

       I wish I was as fortunate as fortunate as me

       I wish I was a messenger and all the news was good.

       (Pearl Jam)

      

      

      

      

       Lunedì.

      Passati i giorni peggiori di quella fredda primavera costaricana, passò poco a poco anche il picco dell’influenza di Castillo.

      Dopo il periodo di pit-stop, era finalmente pronto per tornare al lavoro, carico di energia e buoni propositi.

      Quella mattina si svegliò presto, uscì fischiettando dalla doccia, si rasò rapidamente, si inondò di dopobarba Denim e decise di indossare, quasi per celebrare il rientro al lavoro (era la prima volta in tanti anni che si assentava per due settimane di fila) il vestito di velluto nero col panciotto che tanto lo faceva sembrare un vecchio giocatore di biliardo.

      La cosa gli piaceva, considerato anche il fatto che lui, amante della goriziana, negli anni universitari aveva passato più tempo sul tavolo verde che sui libri del corso di giurisprudenza.

      Per colazione la signora Conchita gli preparò un caffè doppio accompagnato da tre churros appena fritti e Castillo la ringraziò con un sonoro bacio sulla guancia.

      Lei, come sempre, tentò di fingere disinteresse per quella casta manifestazione di affetto, ma fu tradita da un mal celato sorriso di soddisfazione.

      Era una donna ancora affascinante, aveva occhi verdi incastonati in un viso ovale e lunga ciglia nere, gli zigomi alti e un sorriso perfetto.

      I lunghi capelli neri le scendevano morbidi sulle spalle e qualche filo argenteo iniziava a manifestarsi qua e là; ciò non la preoccupava affatto e questo non faceva che aumentare il sentimento dell’ispettore Castillo, innamorato e orgoglioso della poca importanza che sua moglie attribuiva a mere questioni di apparenza.

      «G-grazie, amore m-mio» disse faticosamente Castillo, affondando i denti nel churro più dorato e chiudendo gli occhi a ogni morso per sottolinearne la prelibatezza.

      «Di nulla, caro» rispose la signora Conchita, dandogli le spalle e aprendo le ante della finestra della cucina, certa di trovare, sotto il cielo plumbeo, un acquazzone: suo marito, quando pioveva, balbettava.

      E quando la pioggia era particolarmente intensa, come quella mattina, le parole proprio sembrava non volessero uscire dalla bocca.

      In quei casi, la lingua di Castillo si intestardiva sul palato, insensibile agli sforzi di volontà dell’ispettore, con una sfumatura quasi sadica che gli provocava imbarazzi indesiderati, dai quali usciva solo chiudendo violentemente le fauci e serrando le mascelle per qualche secondo, nella maggior parte dei casi chiudendo al contempo anche gli occhi.

      Gesto fastidioso, nella maggior parte dei casi, ma efficace.

      

      

      Mar e Carmen entrarono quasi contemporaneamente in cucina, entrambe ancora stropicciate da una notte di poco sonno, una per motivi di studio, l’altra reduce da una festa universitaria quantomeno movimentata e innaffiata da troppo alcool.

      Salutarono i genitori con un bacio sulla guancia solo accennato e si sedettero una di fronte all’altra.

      Mar amava passarsi una mano fra capelli corti e neri, di un colore corvino che in molti stentavano

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