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la Svezia e la Norvegia due casette di legno in stile romando del XII secolo; l'Italia un portico di palazzo milanese del Cinquecento; il Giappone una casa di campagna; la Cina una porta del palazzo imperiale di Pechino; la Spagna un frammento dell'Alambra; la Russia una casa di Mosca, quella stessa in cui è nato Pietro il Grande; la Svizzera una casa del cantone d'Argovia, nello stile suo del XVII secolo; il Belgio un palazzo magnifico, nello stile del Risorgimento, e in marmi e pietre delle sue cave; la Grecia una casa Policroma del tempo di Pericle; l'Austria un palazzo ad archi e colonne, che è suo come il Trentino, o come l'Istria, con una facciata a graffiti, elegantissima, di cui si potrebbe vedere il tipo originale a Pistoia, o in qualche altra città della Toscana.

      Ho detto che a tutte questo facciate, e ad altre che ommetto per brevità, corrispondono le rispettive sezioni industriali. Ho detto altresì che nel mezzo dello sterminato edifizio è la corsia delle belle arti di tutti paesi, ed aggiungo che essa s'interrompe nel centro, per dar luogo al padiglione speciale della città di Parigi. Aggiungo ancora che dall'altro lato di questa corsìa, e parallela alla via delle Nazioni, corre la via di Francia, con tutta l'esposizione delle industrie francesi, che costituisce la metà di tutto il palazzo. Ve ne siete formati un'idea? No. Lo capisco; ma non è colpa mia.

      Lo ripeto, qui c'è da confondersi. Vorrei veder voi, lettori umanissimi, dopo una prima gita, tutta consacrata a formarvi un'idea del complesso, ed anche dopo una seconda, tutta spesa a vedere di corsa statue e gruppi di zinco, stivalini, manipoli di grano, ombrelli, aratri, velluti, ostriche, porcellane, lenti telescopiche, pelliccie, rastrelli, molini a vento, borse, bauli, pietre dure, scatole, mobili, bacheche, paraventi, conserve alimentari, arnesi scolastici, sottane, guanti, concimi, seghe, farine, carboni, diamanti… e quasi quasi sarò per aggiungere, col Burchiello,

      … Zaffiri ed ova sode

      Nominativi fritti e mappamondi.

      Io, dopo aver fatto il viaggio e perduta la bussola, sono andato a rifugio nella corsìa delle belle arti, e in quell'altra, che non è molto lungi, delle industrie italiane.

      Giunto là, ho sentito il bisogno, come ora, di ricogliere il fiato.

      V

      Industrie italiane. – Lombardi e Genovesi. – I canditi del Giappone. – Libri e pianoforti. – Scoltura piccina. – Un primato in pericolo. —Exemplaria graeca. – Un pronostico al condizionale.

      C'è del buono, mi affretto a dirlo. Non sono pessimista per progetto ed amo render giustizia a tanti bravi industriali, che modestamente, ma indefessamente, lavorano a rialzare il credito delle manifatture italiane. Gran lode va data, per esempio, a tutti quei valenti setaiuoli comaschi e milanesi che hanno esposto i loro prodotti, mirabili per bontà di tessuto e per vivezza di colore, sotto il titolo comune di Associazione della tessitura serica italiana; allo Schlöpfer di Salerno pe' suoi tessuti ad uso di vestiario; al Piccaluga di Gavi e al Bancalari di Chiavari pei loro filati di seta, veramente notevoli; ai Gérard e ai Casa, genovesi, per la bellezza e la solidità delle loro tele; al Trapolin di Venezia e al Levera di Torino per la sfoggiata magnificenza dei loro damaschi. Firenze e Roma si sono mantenute al primo posto, per l'artistica lavorazione delle pietre dure. Nei mobili siamo giunti ad una bella altezza, e tutti, italiani e forastieri, ammirano lo stipo intarsiato del Bertolotti di Savona; il quale stipo, appunto perchè è la cosa artisticamente meglio riuscita di questo genere, che sia nella esposizione italiana, non ha avuto dal giuri, che una medaglia di terz'ordine.

      Ma passiamo oltre, che i giurì son tutti compagni. Ricordo a titolo d'onore le belle mostre ceramiche e vetrarie, del Ginori di Firenze, della Società Faentina, della Società di Murano e del Salviati di Venezia; non senza notare che, rispetto a queste industrie gentili, siamo rimasti un po' stazionarii di rimpetto ai francesi. Sèvres e il Baccarat informino! Non così per l'industria dell'orafo e del gioielliere, che corre gloriosa e trionfante, con Alessandro Castellani ed altri parecchi. Le filigrane son belle, ma poche, come i versi del Torti e come in genere gli espositori genovesi, che io cito qui per ragione di cittadinanza.

      A proposito di genovesi, e le paste? e i canditi? Ho veduto una piccola mostra di quelle, mandata dal Ghigliotti, ed una piccolissima di questi, mandata dal Ferro. La più parte dei canditi, di Genova e d'altre parti d'Italia, sono giunti in pessimo stato, e non sostengono il paragone dei giapponesi, che pure son venuti… dal Giappone. Ma qui bisogna osservare una cosa. Coi saggi delle industrie giapponesi son venuti a Parigi anche gli autori, che si sono presi una cura gelosissima dei loro prodotti e vi esercitano su una vigilanza quotidiana. I nostri espositori (e non parlo solamente di quelli che mandarono conserve alimentari) hanno il torto di non esser venuti loro a Parigi. I francesi sono quasi sempre davanti ai loro banchi, alle loro vetrine; e ciò si capisce, poichè questa è casa loro. Ma anche gli espositori delle nazioni vicine son tutti qui, intenti a ripulire, a cambiare, a rinnovare. La Spagna ha fatto qualche cosa di più; ha mandato un paio di soldati di tutte le armi del suo esercito, vera esposizione ambulante della sua eleganza in materia d'uniformi, e lusso non indegno di un paese che si rispetta.

      Per ritornare all'Italia, il ministero della marina ha mandato qua un modello del balipedio di Muggiano, cavi, cordami, sagome di bastimenti, e un bel saggio d'attrezzatura di nave da guerra, che forma l'ammirazione di tutti i visitatori. Quello della guerra (almeno, credo che sia lui) ha spedito il cannone automatico dell'Albini e una stupenda carta fisica dell'Italia, eseguita in rilievo dal capitano Cherubini. Ma queste medesime citazioni mi obbligano a ricordare che si poteva far molto di più. Cito ancora una volta, come termine di confronto, la Spagna, che ha inviati parecchi cannoni delle sue fonderie, e molti modelli di fortificazioni, campi trincerati, cantieri, bacini, arsenali, eseguiti in notevoli dimensioni e con una accuratezza superiore ad ogni elogio, dalla sua Academia de Ingenieros del Ejército.

      Non prendete queste note per un esemplare di diligenza, a cui abbia dato rincalzo il catalogo. Tocco solamente e di volo le cose che mi hanno colpito di più, che mi offrono appiglio a qualche modesta osservazione, e non pretendo di fare un esame minuto, nè una scelta ex cathedra di tutto ciò che l'Italia ha esposto nella sua sezione industriale. Dimenticavo, per esempio, la bella vetrina di libri esposta dal Sonzogno, e meritamente lodata da tanti; la mostra del Civelli, che ha ottenuto il primo premio, a cagione d'un gran vocabolario italiano stampato a proprie spese e cent'anni prima di quello della Crusca; le edizioni del Casanova, dello Zanichelli, del Salmin, e via discorrendo; gli strumenti musicali del Pelitti e i pianoforti di non so chi, ai quali non mi sono accostato, et pour cause. Figuratevi che ogni giorno, dalle dieci del mattino fino alle cinque di sera, eccettuate poche battute d'aspetto dedicate alla colazione, un professore vi suona continuamente laggiù la medesima arietta. Mi hanno detto che si tratta d'un valzer nuovissimo, l'Exposition-Valse, che tutti vogliono sentire e comprare. Tutti, meno il sottoscritto, che, perseguitato, rincorso da quel motivo per tutte le sale attigue, non ha voluto saperne di avvicinarsi alla nicchia dei pianoforti, per leggervi i nomi dei fabbricanti e tramandarli alla più prossima posterità.

      C'è del buono, lo ripeto, in questa esposizione italiana, e pare anche meglio quando si è data una corsa in altre sezioni industriali; che non tutte possono avvicinarsi per merito alla Francia, all'Inghilterra, al Giappone, al Belgio, all'Austria-Ungheria, alla Cina. Nuovi in tante arti e mestieri, o scaduti per colpa non nostra dall'antico primato, non possiamo far miracoli in tutto, e a questi lumi di luna. Si aggiunga, per molti industriali italiani, la poca voglia che avevano di mandare i saggi delle loro manifatture in paese lontano; si badi alla ristrettezza del luogo assegnato all'Italia; non si dimentichi la sonnolenza proverbiale di chi avrebbe dovuto e potuto dare a tanti oggetti una migliore collocazione, e si converrà facilmente che, date tante circostanze contrarie, l'esito non è stato infelicissimo. Ma io, dopo tutto, sostengo e dico che se, in parecchie cose, anzi in molte, si poteva dicevolmente restare in terza e in quarta fila, almeno in talune non dovevamo restar secondi a nessuno, e in una di queste secondi a noi stessi, che è peggio.

      Vi sembrerà un indovinello, ma non lo è. Dico che ci fa torto di esser rimasti secondi in pittura, poichè nessuno dei nostri grandi pittori ha mandato un palmo di tela; dico che ci fa torto di non aver fatto meglio in scoltura, e di apparire i primi, sì, ma inferiori alla nostra fama del 1867.

      Sia lodato il cielo, esclameranno gli ottimisti; in qualche cosa abbiamo il primato.

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