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mio figlio, per l'appunto, Lorenzo Salvani: un tuo concittadino, il quale, scommetto, sa tutti i tuoi canti a memoria.

      – Bello, e animoso, in verità! – soggiunse quell'altro. – Ed è probabilmente lui, che ha tradotta la Marsigliese.

      – L'hai dunque udito?

      – Sì, mentre salivo da te. Sentendo il canto famoso in parole italiane, mi sono fermato sul pianerottolo, per non interrompere. È molto difficile voltare quell'inno nella lingua nostra, senza mettersi in guerra dichiarata colla musica. C'è sopra tutto la prosodia del quinto verso e del settimo, che non si acconcia abbastanza al ritmo italiano. Io però mi rallegro con voi, signor Lorenzo Salvani. E a proposito, l'ultima strofa non ce l'avete mica fatta sentire. Sapete bene che la Marsigliese ha un'ultima, ultimissima strofa, dove sono i fanciulli che cantano, come negli inni di Tirteo; __Nous entrerons dans la carrière__…

      – Ah sì, dite benissimo; – replicò il giovinetto; – e questi sono i versi che stanno meglio sulle labbra d'un ragazzo par mio. Infatti, ho tradotto anche questi:

      Noi verremo secondi a riscossa,

      Che i maggior non saranno già più;

      Ma là sparse sarannovi l'ossa,

      Ad esempio d'antica virtù.

      A quelli eroi – sopravvivendo,

      O con essi caduti sul pian,

      – «Hanno voluto» tutti diran

      «Vendicarli, o seguirli morendo».

      All'armi, cittadini

      Stretti a drappel moviam!

      Corriam, d'un sangue vil

      Que' solchi abbeveriam!

      – Voi non dimostrate di voler aspettare che noi siamo morti, – disse l'altro, quando Lorenzo ebbe finito di cantare, – perchè venite animoso a mettervi in riga con noi. Da bravo, imitate vostro padre; e così possano somigliarvi coloro che ci dovranno vendicare, quando saremo caduti. —

      Parole che arieggiavano il pronostico! Un mese dopo, quel giovine pensoso doveva cader ferito alla Villa Corsini, e non morire nemmeno sul campo di battaglia, ma sul letto di un ospedale, tra gli spasimi della gangrena, e le palle di cannone ch'entravano per le finestre a turbar l'agonia del Tirteo genovese.

      Quando il nostro adolescente seppe che il suo interlocutore era Goffredo Mameli, l'autore dei __Fratelli d'Italia__ e di tanti altri bei versi che giravano manoscritti per Genova, arrossì un poco della sua sconciatura, e più del coraggio con cui s'era fatto a metterla in mostra.

      Per fortuna, un soldato venne ad annunziare l'arrivo del generale Garibaldi, il quale, seguito da parecchi ufficiali, andava visitando le mura. Rigo Salvani e il Mameli uscirono incontro a lui, e Lorenzo si pose sull'orme del padre.

      L'eroe di Sant'Antonio e di Rio Grande fece un gran senso nell'animo del giovinetto. Tutto ciò ch'egli aveva udito e letto intorno a quel maraviglioso soldato della libertà, riusciva minore a gran pezza della riverenza che gl'inspirava la vista del grand'uomo dalla camicia rossa, coperto il petto e le spalle dal __poncho__ americano, onde il braccio non poteva uscir fuori del tutto senza un certo movimento dell'òmero e un alzar della mano, che rimarranno caratteristici nella tradizione, come le braccia incrociate sul petto di Napoleone I, o le mani raccolte dietro le reni di Federico il Grande.

      A quell'aspetto veramente olimpico, sereno e dolce nella calma, terribile ad un solo aggrottare di sopracciglia, Lorenzo intese d'un subito tutta la possanza di quell'uomo sulle moltitudini; comprese allora soltanto come potessero essere al mondo uomini tali, al cui cenno altri si precipitasse senza esitare dall'alto d'una torre, siccome egli aveva letto del Vecchio della Montagna; con questo solo divario tra i due, che questi adoperava la sua sterminata autorità ad operare il male, laddove il fascino del viso, della voce, del gesto di Garibaldi non doveva esser volto altrimenti che al bene.

      Il generale strinse la mano al maggior Salvani e al poeta genovese; indi, come gli fu presentato il volontario sedicenne, gli pose la destra sulla spalla e gli disse con la sua poetica breviloquenza:

      – Bravo! Quando tutti i giovani faranno come voi, non ci sarà più dispotismo sulla terra. —

      Queste parole non le dimenticò più, il giovinetto Salvani; e gli suonavano così spiccatamente negli orecchi il giorno appresso, che non ebbe neanche bisogno del rimedio di suo padre per vincere la paura delle prime schioppettate. In quello scontro e negli altri che seguirono, si era diportato da valoroso: usciva nel giugno dalle vinte mura di Roma, sconfortato e pieno di amarezze, ma colla coscienza di aver fatto il debito suo, e meritato i filetti da ufficiale, che gli erano stati conferiti dopo la gloriosa giornata di Villa Panfili. Suo padre, poi, entrato maggiore in Roma, ne usciva colonnello.

      Tornarono a Genova; Rigo Salvani per ritrarsi tosto in un suo podere presso Montobbio, grossa terra del nostro Appennino, dov'era già la moglie ad attenderlo; Lorenzo per proseguire gli studi all'Università genovese, dopo che egli pure fu andato a passare alcuni giorni tra le carezze di sua madre.

      Triste ritorno, davvero: e non bastarono a temperarne l'acerbità gli amplessi della donna gentile, nè il riposo delle domestiche pareti. Roma era caduta: il 30 di agosto il Radetzky entrava in Venezia: l'Austria metteva presidio in Alessandria, dove le sue soldatesche erano precedute dalla musica, che suonava a scherno il __Fratelli d'Italia__; i Francesi intanto restauravano il poter temporale dei papi: le ultime fiamme di quel grande incendio che aveva signoreggiata la penisola si andavano spegnendo tacitamente qua e là: morta la prima grande rivoluzione d'Italia, soldati d'ogni paese e strumenti d'ogni tirannia ne vigilavano mal raffidati il sepolcro.

      Lorenzo si pose con tutta l'anima allo studio. Lo sconforto che gli occupava lo spirito gli nutrì quell'amore della solitudine che già rispondeva alle sue fantasie di poeta. Era sempre colla fronte china sui libri, e nelle vacanze, quante ne offriva l'anno scolastico, volava difilato a Montobbio. Colà suo padre faceva una vita che si sarebbe potuta dir lieta, se le miserande fortune della patria non gli avessero avvelenato ogni gioia, e fatto quasi parere un nuovo esilio la pace della famiglia. Scorato, come tanti altri generosi della sua tempra, passava il tempo a leggere di storia; ma, nelle vacanze del figlio, le sue letture si alternavano colle lezioni di scherma, nella quale il colonnello Salvani, italiano del vecchio stampo, era fin dalla sua prima giovinezza diventato maestro.

      Egli soleva dire a Lorenzo:

      – Impara a leggere ne' tuoi codici; impara a scrivere le tue prose e i tuoi versi; ma impara anche a dare in tempo la botta diritta, e a piantare di primo lancio una palla di pistola in un palo, a quaranta passi discosto. Il coraggio l'hai; abbi ancora la destrezza, perchè gli uomini in maggioranza son tristi, e dai tristi bisogna sapersi far rispettare. Ama la patria, perchè essa, che ti ha dato i natali, è schiava dello straniero, e perciò non devi patire questa vergogna, non già per alcun bene che tu ti possa riprometter da lei. Così devi amare il tuo simile, senza dolerti delle sue doppiezze e de' suoi tradimenti. Se trovi una donna sincera, amala come io ho amato ed amo tua madre. Se trovi un amico che sia schietto e generoso, stendigli la mano. Se la donna o l'uomo non risponderanno alla fede che avevi riposta in essi, non ti accorare oltre il bisogno; sarà tanto peggio per loro; tu ara diritto, e non ti dar pensiero del resto. —

      Questi insegnamenti, misti alle conversazioni politiche, ai ricordi del campo, alla lettura di Plutarco e alle lezioni di scherma, avevano fatto opera gagliarda nell'animo sensitivo di Lorenzo. A quarant'anni, ammaestrato ad una simile scuola, sarebbe riuscito uno stoico; ma non aveva ancora diciott'anni, e lo aspettavano certe battaglie, alle quali si mostra inerme quel petto che era pur dianzi tetragono ad ogni avversità della vita.

      La madre di Lorenzo era una di quelle donne, non troppo rare, la Dio mercè, presso noi, cresciute nel culto del bello, del buono e del vero. Ella aveva molto sofferto per la lontananza del marito, che fortemente amava, e al quale aveva consacrato quel ragionevole ossequio che si merita la virtù presso gli animi virtuosi. Egli, poi, la ricambiava di pari affetto, la sua nobilissima Luisa; per lei si spianavano le rughe della sua fronte; e quando ella parlava. Rigo Salvani trovava pure il modo di comporre ad un sorriso quelle sue labbra chiuse. L'amor loro poteva assomigliarsi a que' fiumi, i quali

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