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voi? Io no, e scommetterei che non ci credevano neanche gli ufficiali, perché erano pallidi come tutti noi.

      – Anche il capitano era diventato serio serio, e la sua fronte si era aggrottata; ma egli era testardo come un guascone, e non voleva credere a Nettuno, né alla potenza di questo re.

      – Ed ecco ad un tratto sorgere all’orizzonte una nube, nera come il bitume. Voi non lo crederete forse; ma io, con questi occhi ho veduto che quella nube aveva tre punte acute, rassomiglianti a un gigantesco tridente. Eravamo tutti muti per lo spavento: ufficiali, marinai e mozzi erano diventati pallidissimi allo scorgere quella sinistra nube, nel cui seno guizzavano lampi sanguigni.

      – Pareva che Nettuno avesse rizzato dinanzi a noi il suo immane tridente per impedirci il passo; e così doveva essere, poiché poco dopo il vento girava bruscamente al sud, soffiando di fronte a noi. Cresceva la sua violenza di minuto in minuto, poi era caldo come se uscisse dalle voragini dell’inferno, e sollevava con forza irresistibile l’oceano, alzando la gran nube, che si estendeva minacciosamente sopra il nostro capo, e conservando sempre la sua bizzarra forma.

      – Dagli abissi del mare uscivano muggiti e boati profondi, il vento urlava su tutti i toni attraverso il sartiame dell’alberatura, nell’aria rombava incessantemente il tuono e lampeggiava. Talvolta tra le raffiche furiose, ci pareva di udire una voce possente che ci gridasse: «Non passa la linea chi non mi saluta!…»

      – Invano il nostro capitano, che non voleva arrendersi al re del mare, comandava manovre, girava di bordo per prendere vento largo, e tentava di avanzare bordeggiando: la nave veniva respinta dalle onde e dal vento. Tre volte ripassammo la linea, e tre volte fummo ricacciati nell’emisfero settentrionale.

      – Scoppiavano le vele, cedevano le manovre correnti, si piegavano come stuzzicadenti gli alberi e i pennoni, si sfondavano le murate, cresceva la paura in tutti; ma il testardo non voleva capitolare, e tornava sempre più irato alla carica, deciso di mandarci tutti a bere nella grande tazza salata, piuttosto che retrocedere.

      – Parve che la fortuna sorridesse all’audace, poiché a mezzanotte, dopo dodici ore di lotta disperata, la corvetta ripassava la linea, entrando nell’emisfero australe. Ma Nettuno aveva decretato la fine del testardo comandante.

      – Un’ora dopo, una montagna d’acqua rovesciava la corvetta sul tribordo. Cosa sia poi accaduto, non ho mai potuto saperlo con precisione. Mi ricordo confusamente d’aver veduto non so quante onde precipitarsi con orribile frastuono sul povero legno, di aver udito urla, invocazioni disperate, gemiti, scricchiolii, uno spezzarsi di legni, poi più nulla.

      – Quando rinvenni, mi trovai nel fondo di una scialuppa, solo sul burrascoso oceano. Come ero là? Non lo seppi mai.

      – La tempesta mi portò lontano lontano dal luogo del naufragio. Rimasi in mare dieci giorni, mangiando una delle mie scarpe e aprendomi due volte una vena per dissetarmi.

      – Quando una nave mi raccolse, ero ridotto in uno stato da far compassione: giallo come un melone, asciutto come un’aringa, tutto pelle ed ossa. Dei miei compagni non ebbi più notizia; si sono salvati, o riposano in fondo agli abissi marini? Io lo ignoro ancora; ma se qualcuno fosse sopravvissuto a quell’orribile catastrofe, l’avrei incontrato in qualche angolo del mondo e invece nessuno mai mi apparve. Sono tutti morti: il cuore me lo dice.

      Papà Catrame col dorso della mano spazzò via due lagrime che gli solcavano le incartapecorite gote, si mise la pipa in tasca e scosse malinconicamente il capo, brontolando: – Non si creda più ora al re del mare!…

      – A quale re? – chiese il capitano. – A quello creato dalla vostra balzana fantasia? Non è così, mastro Catrame? Un tempo si poteva credere all’esistenza di Nettuno forse, come si è creduto all’esistenza delle sirene e a cento altre corbellerie; ma oggi no, vecchio mio. Simili storie si lasciano ai marinai vecchi e barbogi…

      – Ma la corvetta…

      – Una tempesta qualunque l’ha affondata, Catrame.

      – Ma quell’onda immensa…

      – Un maremoto, mastro mio.

      – Ma quella nube…

      – Una nube pur che sia. Forse che non ne hai mai vedute di quelle che hanno tre, cinque, dieci, venti punte?… Va’ a dormire, papà Catrame, e lascia là Nettuno che non è mai esistito e il battesimo della linea che non è un omaggio reso al re degli abissi, ma una carnevalata inventata da allegri marinai. Va’, va’ e bevi il resto della mia bottiglia.

      La campana dell’inglese

      Anche durante la terza giornata papà Catrame non comparve in coperta. Voleva essere solo per frugare nei vecchi ricordi, onde prepararci una delle sue funebri leggende, o l’età gli pesava troppo sul groppone? Chi può dirlo?

      Quando però alla sera lasciò la cala e salì sul ponte, mi parve che fosse di cattivo umore. Non salutò nessuno, non guardò né il mare, né l’alberatura, e non chiese se fosse accaduto alcunché di straordinario. Andò a sedersi sul suo barile, si prese il capo fra le mani e parve assopito.

      Dovevamo aspettarci qualche paurosa storia, poiché il narratore non era d’un umore da farci ridere. Cosa mai ruminava nel suo vecchio cervello imbevuto di pregiudizi?

      Niente d’allegro di certo, tanto più ch’egli era un vecchio triste come le leggende che ci raccontava, e fantastico come le popolazioni che vivono sotto i nebbiosi orizzonti dei mari del nord.

      – Papà Catrame, – disse il capitano, – cosa ti frulla pel capo questa sera, che hai un viso da funerale?

      – Sono triste, – rispose il vecchio, scuotendosi.

      – Forse che il mio Cipro ti mette indosso la malinconia? Se è cosi, andrò a torcere il collo a quel birbone di musulmano che me lo ha venduto.

      – Il vostro Cipro è eccellente.

      – Forse che sei ammalato?

      Papà Catrame scosse il capo, come per dire di no; poi alzò lentamente gli occhi e, fissandoli su di noi, disse, con voce che faceva un certo senso: – Credete voi alla campana dei morti?

      Ci guardammo in viso l’un l’altro con stupore, misto a una certa paura. Di quale campana intendeva parlare il vecchio mastro?

      Non rispondendo nessuno, chiese: – Avete mai udito suonare la campana sotto il mare, durante le tempeste, prima o dopo una disgrazia?

      – Papà Catrame, – disse il capitano, – vaneggi, o sogni?…

      – No, – rispose il vecchio con energia, – non sogno e non vaneggio; e qualcuno di voi deve averla udita qualche volta.

      – Le antiche storie narrano, – diss’egli, dopo alcuni istanti di silenzio, – che durante le tempeste, le vittime del mare salgono alla superficie e suonano la campana, per chiedere ai naviganti una prece. Voi sorridete ora, perché non credete alle vecchie narrazioni marinaresche; ma aspettate un po’! Più tardi, voi tutti che mi ascoltate, crederete alla campana dei morti, perché papa Catrame l’ha udita suonare in mezzo all’ampio oceano.

      – Che storia funebre dev’esser quella che ci racconterai! – disse il capitano. – Se continui di questo passo, spaventerai tanto questi miei lupicini, che al primo approdo scapperanno tutti, per non ritornare più mai sul mare.

      Papà Catrame alzò le spalle, accese il suo pezzo di sigaro per umettarsi la lingua, poi cominciò la sua terza novella, fra l’attenzione generale.

      – Avevo stretta amicizia con un marinaio inglese, imbarcato sullo stesso legno che io montavo. Non saprei proprio dirvi che tipo fosse: era stravagante, eccentrico come tutti i suoi compatrioti, superstizioso come una femminuccia e di umore sempre tetro.

      – Parlava poco, beveva invece molto, e quando traballava, non faceva che parlare dei morti, poiché aveva sempre una lugubre idea nel cervello, quella di morire molto presto.

      – Ogni volta che la nave lasciava un porto, egli veniva a bordo colle tasche completamente vuote, convinto che quello doveva essere l’ultimo viaggio. Del resto, era un eccellente

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