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dal profondo silenzio che regnava, si diressero verso la spianata di forte William.

      Si tenevano però lontani dalle pareti delle case che fiancheggiavano la via, e mentre l’uno guardava a destra l’altro guardava a sinistra.

      Ogni quindici o venti passi si fermavano per guardarsi alle spalle e per ascoltare. Erano convinti di essere seguiti da qualcuno, forse dall’uomo che Sandokan aveva veduto allontanarsi nel momento in cui Kammamuri stava aprendo la porta del palazzo.

      Tuttavia giunsero felicemente all’estremità della via, senza che nulla fosse avvenuto e sboccarono sulla spianata dove l’oscurità era meno fitta.

      – È là il fiume, – disse Sandokan.

      – L’odo, – rispose Yanez.

      Affrettarono il passo ma non erano ancora giunti a metà della spianata, quando ad un tratto caddero l’uno sull’altro.

      – Ah! Canaglie! – gridò Sandokan. – Hanno teso un filo di ferro!

      Nel medesimo istante alcuni uomini che si tenevano appiattati fra le folte erbe, si precipitarono sui due scorridori del mare facendo fischiare in aria qualche cosa.

      – Non alzarti, Sandokan! I lacci! – gridò Yanez.

      Vi risposero due colpi di pistola, sparati l’uno dietro l’altro.

      Sandokan aveva fatto fuoco precipitosamente, nel momento in cui si sentiva colpire alle spalle da una palla di ferro o di piombo. Uno degli assalitori cadde, mandando un grido che subito si spense. I suoi compagni si gettarono a destra e a sinistra e scomparvero rapidamente fra le tenebre, prendendo diverse direzioni.

      Sui bastioni del forte William si udí una sentinella a gridare:

      – Chi va là?

      Poi piú nulla.

      Yanez e Sandokan, temendo un ritorno offensivo degli assalitori, non si erano mossi.

      – Se ne sono andati, – disse finalmente il primo, non vedendo comparire piú nessuno. – Non sono molto coraggiosi questi Thugs, ammesso che fossero veramente gli strangolatori di Suyodhana. Sono scappati come lepri ai primi spari.

      – L’agguato era stato ben preparato, – rispose Sandokan. – Se tardavo a scaricare le pistole ci strangolavano. È un filo d’acciaio che hanno teso per farci cadere.

      – Andiamo a vedere se quel briccone è proprio morto.

      – Non si muove piú.

      – Può fingersi morto.

      Si alzarono guardandosi intorno e tenendo in alto un braccio per tema di sentirsi imprigionare il collo da qualche altro laccio, e s’avanzarono verso l’uomo che giaceva disteso fra le erbe, colle mani strette sul capo e le gambe ripiegate.

      – Ha ricevuto una palla nel cranio, – disse Sandokan, vedendo che aveva il viso imbrattato di sangue.

      – Che sia un thug?

      – Kammamuri ci ha detto che quei settari hanno un tatuaggio sul petto.

      – Portiamolo nella scialuppa.

      – Taci!

      Un fischio erasi udito in lontananza, e un altro vi aveva risposto verso la via Durumtolah.

      – Mio caro Yanez, – disse Sandokan. – Alla baleniera e senza perdere tempo. Avremo altre occasioni per osservare i tatuaggi dei Thugs.

      Balzarono in piedi, saltarono il filo d’acciaio e si diressero rapidamente verso il fiume, mentre fra le tenebre echeggiava un terzo fischio.

      La baleniera era ormeggiata al medesimo posto e mezzo equipaggio era sulla gettata armato di fucili.

      – Padrone, – disse il timoniere scorgendo Sandokan, – siete stato voi a far fuoco?

      – Sí, Rangary.

      – L’avevo detto ai miei uomini che quegli spari erano di pistole di Mompracem. Stavo per accorrere in vostro aiuto.

      – Non c’era bisogno, – rispose Sandokan. – È venuto nessuno a ronzare attorno alla scialuppa?

      – No, signore.

      – A bordo, tigrotti miei. È già molto tardi.

      Fece accendere il fanale collocato a prora e la baleniera si allontanò.

      Quasi nell’istesso momento un piccolo gonga che era nascosto dietro una pinassa, ancorata presso la gettata e montato da due uomini, nudi come vermi e unti di olio di cocco, si staccava silenziosamente dalla riva filando dietro la baleniera del praho.

      Capitolo IV. IL «MANTI»

      L’indomani Yanez e Sandokan, dopo d’aver dormito alcune ore, stavano sorbendo un’eccellente tazza di the; e mentre chiacchierando sugli avvenimenti della notte, videro entrare nel salotto il mastro dell’equipaggio, un superbo malese, tarchiato come un lottatore e dai muscoli enormi.

      – Che cosa vuoi, Sambigliong? – chiese Sandokan che si era alzato. – È giunto qualche messo di Tremal-Naik?

      – No, capitano. Vi è un indiano che chiede di salire a bordo.

      – Chi è?

      – Un manti, mi ha detto.

      – Che cos’è questo manti?

      – È una specie di stregone, – disse Yanez, che avendo soggiornato nella sua gioventú parecchi anni a Goa, ne sapeva qualche cosa.

      – Ti ha detto che cosa vuole quell’uomo? – chiese Sandokan.

      – Che viene a compiere un sacrificio a Kalí-Ghât onde i numi dell’India ti siano propizi, scadendo oggi la festa di quella divinità.

      – Mandalo al diavolo.

      – Vi osservo, capitano, che egli è stato ricevuto anche a bordo delle grab che ci stanno intorno e che è accompagnato da un policeman indigeno, il quale mi ha detto di non rifiutare la sua visita, se non vogliamo avere dei fastidi.

      – Facciamolo salire, Sandokan, – disse Yanez. – Rispettiamo i costumi del paese.

      – Che uomo è? – chiese il pirata.

      – Un bel vecchio, capitano, dall’aspetto maestoso.

      – Fa’ abbassare la scala.

      Quando salirono poco dopo sulla tolda, il manti era già a bordo, mentre invece il policeman indigeno era rimasto nel piccolo gonga in compagnia di parecchi capretti che belavano lamentosamente.

      Come Sambigliong aveva detto, quel medico e stregone ad un tempo, era un bel vecchio dalla pelle abbronzata, i lineamenti un po’ angolosi, gli occhi nerissimi che avevano uno strano splendore ed una lunga barba bianca.

      Sulle braccia, sul petto e sul ventre aveva delle righe bianche e cosí pure sulla fronte, distintivi dei seguaci di Siva, i quali adoperano le ceneri di sterco di vacca o ceneri raccolte sui luoghi ove si bruciano i cadaveri.

      Il suo vestito si limitava a un semplice dootée che gli copriva appena i fianchi.

      – Che cosa vuoi? – gli chiese Sandokan, in inglese.

      – Compiere il sacrificio della capra in onore di Kalí-Ghât, di cui oggi scade la festa, – rispose il manti nell’egual lingua.

      – Noi non siamo indiani.

      Il vecchio socchiuse gli occhi e fece un gesto di stupore.

      – Chi siete dunque?

      – Non occuparti di sapere chi noi siamo.

      – Venite molto da lungi?

      – Forse.

      – Io compirò il sacrificio onde il tuo ritorno possa essere felice. Nessun equipaggio, anche straniero, si rifiuterebbe di lasciar compiere una tale cerimonia a un manti che può gettare dei malefizi. Chiedilo al policeman che m’accompagna.

      – Allora spicciati, – disse Sandokan.

      Il

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