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più lontana che fosse stato possibile.

      Il disco argenteo brillò per qualche istante fra i raggi del sole, poi fu portato via e scaraventato all’opposta estremità del recinto.

      Yanez aveva fatto il suo primo colpo, ma aspettava l’occasione di farne un altro più strabiliante.

      Aveva lasciata cadere la carabina scarica ed aveva presa l’altra, puntandola verso il centro del recinto.

      Si udì un altro sparo ed il toro cadde sulle ginocchia, colla testa attraversata da una palla conica.

      Un gran grido d’entusiasmo si alzò fra gli spettatori, i quali non si aspettavano quell’aggiunta al programma.

      – Milord, fate paura – disse il Sultano. – Se tutti gl’inglesi tirano così, non sarò certamente io che impegnerò i miei rajaputi.

      – Cadrebbero falcidiati come spighe mature – rispose Yanez sorridendo.

      – Volete che continuiamo lo spettacolo?

      – Se può far piacere a Vostra Altezza, sia pure. —

      Ad un segnale di tromba, venti uomini armate di lance si erano avanzati nell’arena su una fila compatta, mentre dall’altra parte si scagliavano fuori dalla capanna un’altra tigre ed una superba pantera nera, dal pelame leggermente chiazzato con delle sfumature magnifiche.

      I due animali, appena liberi, si guardarono l’un l’altro come per chiedersi perché li avevano rimessi in libertà; poi la pantera, meno paziente della compagna ed anche più sanguinaria, si mise a strisciare verso gli uomini i quali aspettavano a piè fermo l’attacco, tenendo una linea di lance in direzione obliqua ed un’altra verticale.

      Abituati, come i lottatori indiani, a quegli spettacoli sanguinari, non manifestavano nessuna apprensione.

      Il Sultano d’altronde era là sempre, pronto ad incoraggiarli con un gesto.

      La tigre, vedendo la compagna muovere all’attacco, dopo una breve esitazione a sua volta si mise in moto, spiccando una serie di balzi altissimi, come per ben assicurarsi prima della elasticità dei muscoli.

      Un grand’urlo di gioia aveva accolto la decisione della fiera.

      Lo spettacolo doveva diventare estremamente interessante e anche pericoloso pei lanceri.

      Per qualche minuto la pantera s’avanzò a zig-zag, come se fosse indecisa sulla via da scegliere, poi si scagliò all’attacco con velocità fulminea, mandando un grido sordo.

      I lanceri avevano fatto un passo innanzi, mostrando le lunghissime ed aguzze punte delle loro armi.

      La belva, vedendo balenare dinanzi ai suoi occhi tutte quelle punte minacciose, tentò di arrestarsi, ma ormai era troppo tardi.

      I lanceri si erano a loro volta gettati innanzi e l’avevano ricevuta sulle estremità delle terribili aste, bucandola in diverse parti del corpo.

      Una pioggia di sangue fumante cadde su di loro, ma tennero fermo finché il corpo cessò di agitarsi.

      La tigre, vedendo l’accoglienza fatta alla sua compagna, quantunque spaventata da urli e da oltraggi d’ogni specie, aveva battuto in ritirata, scattando come se tutta l’arena fosse coperta di molle.

      Pezzi di banchi, bastoni, frutta, le piovevano addosso, ma senza deciderla.

      – È una paurosa, – disse il Sultano, volgendosi verso Yanez. – Volete mostrarmi uno dei vostri meravigliosi tiri, milord?

      – Se lo desiderate sarò ben contento di soddisfarvi ancora, Altezza, – rispose il portoghese.

      – Date un fucile a milord. —

      Un sergente dei rajaputi portò un paio di carabine.

      Yanez ne prese una, guardò se era carica, fece cenno ai lanceri di ritirarsi e mirò la belva che non cessava di scattare, rifiutandosi ostinatamente di venire ad un corpo a corpo.

      Un gran silenzio si era fatto. Si sarebbe detto che tutte quelle migliaia e migliaia di spettatori trattenevano perfino il respiro, per non perdere nulla di quella caccia di nuovo genere.

      Yanez cambiò posizione tre o quattro volte, poi, vedendo la tigre presentarglisi di fronte, sparò.

      Un uragano di applausi salutò l’abile bersagliere, il quale dopo aver freddato il toro fulminò la figlia sanguinaria delle jungle.

      – Milord, – disse il Sultano, – domani vi aspetto al mio palazzo. Lo spettacolo ormai è finito. —

      4. L’attacco alla cannoniera

      Da tre giorni Yanez si godeva gli ozi di Varauni, dividendo il suo tempo fra la corte, dove il Sultano non mancava mai di far danzare qualche centinaio di bajadere fatte venire dall’India con grandi spese, e fra le feste.

      Nel suo palazzotto aveva dato già ricevimenti, invitando anche i pochi europei che si trovavano nella capitale del Sultanato, quantunque potessero costituire per lui un pericolo.

      Già trovava che tutto andava per il meglio, che il Sultano era abbastanza grazioso, che i vini della corte erano eccellenti, quando una notizia fulminea interruppe la sua vita beata.

      Aveva già dato ordine, la mattina del quarto giorno, che lo yacht accendesse i fuochi per fare una escursione intorno alla vasta baia, quando vide entrare nel suo gabinetto da lavoro Padar, il mastro del piccolo praho da corsa, che aveva da qualche tempo inviato verso Mangalum, perché l’informasse della sorte toccata ai naufraghi.

      Quantunque fosse un uomo non facile ad impressionarsi, il mastro appariva in preda ad una vivissima agitazione.

      – Ebbene, che cosa c’è? – chiese Yanez, riaccendendo la sigaretta che aveva lasciata spegnere. – Sta per cadere la luna o il sole?

      – State per essere sorpreso e dentro il porto, capitano, – rispose il mastro.

      – Da chi?

      – Una cannoniera olandese ha incontrato le scialuppe dei naufraghi e le rimorchia qui.

      – Per Giove! —

      Il portoghese gettò via la sigaretta, e si mise a camminare a grandi passi per il gabinetto.

      – Fuma lo yacht? – chiese a Padar.

      – Le sue macchine sono accese.

      – Qui bisogna tentare un colpo di testa disperato. Una cannoniera non è già un incrociatore e coi miei grossi pezzi da caccia non dubito di metterla presto fuori combattimento.

      È lontana?

      – Non sarà qui prima d’un paio d’ore.

      – Allora salviamo subito lo yacht. Troverò poi qualche scusa per persuadere quell’imbecille di Sultano che io dovevo difendermi.

      Una storia! Chi me la dà?… L’ho bell’è trovata.

      Andiamo, Padar, perché qui si corre il pericolo di naufragare tutti. —

      Si mise in testa l’elmo di tela, prese le sue famose pistole e lasciò il palazzotto, seguito dal mastro e da una mezza dozzina di malesi, equipaggiati perfettamente per la guerra e che indossavano il pittoresco costume dei cipay indiani.

      Essendo giorno di mercato, le vie attigue al porto erano quasi deserte, così Yanez e la sua scorta poterono imbarcarsi senza quasi essere stati notati.

      Lo yacht era sotto pressione e dietro di lui stava ancorato il praho di Padar, il quale poteva, colle sue due grosse spingarde ed i suoi trenta uomini d’equipaggio, dare molto filo da torcere ai salvatori dei naufraghi.

      Yanez, come sempre, aveva fatto rapidamente il suo piano: inseguire al largo ed offrire agli olandesi, senza nessuna testimonianza, una vera battaglia.

      Si sentiva forte coi suoi due cannoni da caccia che lanciavano una palla a mille e cinquecento metri, distanza allora sconosciuta fra le flotte anglo-indiane. E poi sapeva di poter contare assolutamente sui suoi malesi ed i suoi dayachi. Al primo comando, nessuno si sarebbe rifiutato di montare all’abbordaggio coi parangs in pugno.

      Lo

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