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La caduta di un impero. Emilio Salgari
Читать онлайн.Название La caduta di un impero
Год выпуска 0
isbn
Автор произведения Emilio Salgari
Жанр Зарубежная классика
Издательство Public Domain
Tremal-Naik era già sul davanzale del finestrone e ricaricava rapidamente la sua arma a fianco di Yanez.
«Facciamo un doppio colpo o perderemo il capo degli sikkari» disse il portoghese. «Dove devo fare fuoco? Ti confesso che non vedo assolutamente nulla». «Spara in fondo alla pagoda». «Sei pronto?» «Sì, Yanez». «Se non si arresteranno faremo lavorare gli sikkari».
Puntarono le carabine e fecero fuoco scatenando urla selvagge. I paria dovevano aver ricevuto un po’ di mitraglia, e forse si erano arrestati, non sapendo con quanti avversari avevano da fare.
Il capo degli sikkari aveva subito approfittato di quella breve sosta, per mettersi anche lui al sicuro sul finestrone. «Non hai ricevuta nessuna freccia?» gli chiese Tremal-Naik.
«No, sahib, però ne ho udite molte fischiarmi intorno. Guai se non avessi spenta subito la candela. Mi avrebbero imbottito di veleno».
«Ed ora che cosa succederà?» chiese Tremal-Naik, guardando Yanez, il quale si era affrettato, dopo la comparsa del sikkaro, a ritirare la corda. «Noi volevamo sorprendere i congiurati e mi pare invece che i sorpresi siamo stati noi».
«Chi poteva prevedere il tradimento dei rajaputi?» disse Yanez, con un sospiro. «Eppure in quelle truppe avevo fiducia. Duecento uomini passati al nemico in una sola notte!… Sono troppi per un principe che ne ha appena un migliaio ed anche disseminati nelle diverse città. Non credevo che quel Sindhia fosse così forte e così astuto». «C’è qualcuno che lo guida». «Il fakiro che ha pagato i miei guerrieri».
«Sì, Yanez. Sindhia da solo non saprebbe far nulla. L’altra volta aveva un greco, ora ha un fakiro per condottiero delle sue forze». «Il greco era più pericoloso». «Noi non sappiamo ancora chi sia questo fakiro».
«Io spero di poterlo, un giorno o l’altro, sorprendere ed attaccarlo alla bocca d’un cannone». «Ed intanto siamo assediati».
«E veramente assediati, perché anche dinanzi a noi, nascosti nella boscaglia, vi sono altri uomini i quali ci impediranno di far ritorno alla capitale». «Che venga il cornac?»
«Io lo spero. Se Sahur giunge, noi caricheremo al galoppo quelle canaglie e le metteremo in completa rotta». «E se al cornac fosse mancato il colpo?»
Yanez si mise una mano in tasca, prese una sigaretta, l’accese, poi colla sua calma abituale disse:
«Allora saremo noi che caricheremo a gran colpi di carabina. Oh!… Non sarà questa notte che io perderò il mio impero».
«Queste Tigri di Mòmpracem, anche se di pelle bianca, sono sempre meravigliose» disse Tremal-Naik. «Non dubitano mai della vittoria finale».
«Altezza» disse in quel momento il capo degli sikkari, il quale spiava dal davanzale del finestrone. «Noi abbiamo una specie di bomba. Se non possiamo più far saltare la grossa porta, lanciamola dentro la pagoda».
«No, mio caro, la getteremo contro i paria che cercano d’impedirci la ritirata, e dall’alto dell’elefante. Di quelli che sono chiusi nel tempio non mi occupo, poiché sarà ben difficile che possano salire fino qui. Che cosa fanno?»
«Non odo più nulla, come non vedo più nulla» rispose il cacciatore. «Pare che quei colpi di carabina li abbiano resi estremamente prudenti».
«Giacché ci lasciano tranquilli, niente di meglio, se non ci preparano invece qualche sorpresa». «Dovrebbero incendiare la pagoda» disse Tremal-Naik, sorridendo. «Ah, furfante!… Vuoi insegnare loro per farci prendere subito».
«Sono lontani e non ci possono udire, amico Yanez. E poi vi è troppa pietra qui, ed il fuoco si estinguerebbe subito senza bisogno d’acqua. Io vorrei sapere che cosa fanno quelli che si sono imboscati dinanzi a noi. Che cosa aspettano per assalirci? Questa tregua mi stupisce». «Aspetteranno dei rinforzi». «Se cercassimo di snidarli, Yanez». «È quello che pensavo poco fa».
«Vuoi che proviamo? Siamo ancora ben muniti di polvere e di palle malgrado la confezione della bomba». «Io però non saprei dirti esattamente dove si sono nascosti». «Spareremo a casaccio i primi colpi. Se rispondono sapremo regolarci».
«Allora a voi, sikkari» disse Yanez. «Noi guardiamo il finestrone per impedire ai paria del tempio di raggiungerci».
I sei cacciatori coricarono i due prigionieri in un luogo sicuro, poi si sdraiarono dietro le gigantesche trombe degli elefanti e fecero una scarica in mezzo alla boscaglia, tirando a casaccio.
Le detonazioni non si erano ancora spente, quando parecchi uomini, forse più di cinquanta, si precipitarono fuori dai cespugli sparando verso il finestrone.
«Sgombriamo» disse Yanez. «Tirano male come coscritti, tuttavia ho udito delle palle miagolare sopra di me».
«E palle di carabina!» disse Tremal-Naik, mettendosi dietro ad una tromba. «Quelle canaglie adoperano le armi che hanno prese ai nostri rajaputi». «Bah!… Non la dureranno a lungo. Dov’è la bomba?» «Ti sei deciso di farla esplodere finalmente?»
«È necessario arrestare lo slancio di quegli uomini. Che baccano!… Sembrano sciacalli affamati in cerca di cena!…»
I paria, che si erano nascosti nella foresta, si avanzavano coraggiosamente, urlando e sparando all’impazzata. Probabilmente era la prima volta che adoperavano le armi da fuoco, e non potevano quindi ottenere che dei magri successi.
Gli sikkari invece, tiratori meravigliosi, colpivano in pieno, gettando a terra, ad ogni scarica, parecchi uomini, se non uccisi almeno bene mitragliati. Yanez e Tremal-Naik, temendo qualche brutta sorpresa da parte di quelli che si trovavano nel tempio, e che da un momento all’altro erano diventati più muti dei pesci, sparavano qualche colpo attraverso il finestrone per avvertirli che anche da quella parte vegliavano.
I paria, se hanno l’impeto delle razze veramente selvagge, non sono mai stati guerrieri, quindi non potevano tenere testa a quel gruppo d’uomini, che dall’alto del tempio li tempestavano di pallettoni. E poi, come abbiamo detto, non dovevano avere nessuna pratica delle armi da fuoco, usando essi di solito le armi bianche e le frecce avvelenate. Tuttavia, malgrado la gragnuola che li colpiva e che li faceva urlare come vere belve feroci, sempre sparando, si erano spinti fino dinanzi alla porta maggiore della pagoda, ma non si erano sentiti in grado di tentare di raggiungere gli sikkari, i quali, con grande calma, celati dietro le trombe degli elefanti, rispondevano.
Tentarono ancora una breve resistenza, poi crivellati dalla mitraglia, si salvarono a corsa sfrenata nella boscaglia, lasciando dietro di loro qualche morto.
«Corpo di Giove!…» esclamò Yanez, dopo d’aver sparato un ultimo colpo entro la pagoda. «Finalmente se ne sono andati quei noiosi. Se Sindhia conta su questi uomini, avremo facilmente buon giuoco». «Ed è per questo che il furbo ti porta via i rajaputi» disse Tremal-Naik. «E li paga coi denari che gli passava mia moglie per curarsi!…»
«Oh!… Ne avrà avuto ben altri. Tutti questi principi indiani hanno il loro tesoro nascosto accuratamente».
«Lo so: Sindhia non deve aver lasciato l’Assam senza portarsi dietro una fortuna, forse il tesoro di guerra che sarebbe spettato a mia moglie».
Mentre parlava, Yanez aveva accesa la miccia della bomba. Aveva veduto i paria ricomparire sul margine della foresta, e voleva impressionarli con un formidabile scoppio. Si alzò, misurò la distanza, poi lanciò la latta piena di polvere e di proiettili. «Dovevi aspettare» disse Tremal-Naik. «Poteva esserci più utile più tardi». «Sai che cosa io ho udito?» «Non so». «Il barrito d’un elefante». «Che il cornac ritorni con Sahur?»
In quel momento la bomba scoppiò con un fracasso spaventevole, sollevando una grande fiammata ed una fitta nuvola di fumo. Gli alberi vicini furono sradicati e poi incendiati, ma la peggio toccò ai paria i quali, completamente disorganizzati, per la seconda volta se la diedero a gambe, rifugiandosi nuovamente nel folto della foresta.
«Sahur!…» gridò in quel momento Tremal-Naik. «Conosco il suo barrito. Sta per giungere». «Come vedi,