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le nostre vesti e diventiamo marinai» disse Carmaux. «Nessuno sospetterà di noi».

      Aprì una cassa che si trovava sotto la prora ed estrasse delle grosse casacche di panno grigio, delle fascie di lana e dei berretti terminanti a punta con grosso fiocco azzurro.

      Legato il timone e la scotta, in pochi istanti si trasformarono, poi gettarono lungo i bordi alcune reti, lasciando cadere in acqua i sugheri.

      «Vediamo come sta ora l’amico» disse Carmaux, quand’ebbe finito.

      Levò la tela che copriva il disgraziato piantatore, poi lo sbarazzò della sciarpa che gli chiudeva la bocca.

      Don Raffaele respirò a lungo, senza però aprire gli occhi.

      «Il sonno è stato più forte della paura» disse l’avventuriero ridendo. «Quello Xeres e quell’Alicante erano proprio di prima qualità. Il capitano Morgan sarà ben lieto di questa cattura e penserà lui a far sciogliere la lingua al nostro prigioniero».

      «Purché non muoia sul colpo, risvegliandosi nelle mani dei filibustieri» disse Wan Stiller.

      «Prenderemo le nostre precauzioni onde non spaventarlo tutto d’un tratto».

      «Avrebbe fatto meglio a spiattellare tutto ciò che sapeva intorno alla figlia del cavaliere di Ventimiglia».

      «L’avrei rapito egualmente».

      «Che cosa vuol farne Morgan di un abitante di Maracaybo?»

      «Mio caro, potrà avere da questo imbecille delle preziose informazioni sul numero dei soldati che occupano i forti e dei cannoni che li armano».

      «Dunque è risoluto ad assalire la piazza?»

      «Ora più che mai!»

      «Avremo un osso duro da rodere, mio caro Carmaux. Hai veduto che opere imponenti hanno innalzato gli spagnoli? Maracaybo non è più quella che era quando l’espugnammo col Corsaro Nero e con quel diavolo di Olonese».

      «Siamo in buon numero e non ci mancano le artiglierie. I milioni di piastre che ricaveremo compenseranno largamente i rischi d’una simile impresa».

      «Purché la flotta non venga scoperta».

      «La baia di Amnay è ben coperta e nessuno scorgerà le nostre navi. D’altronde i nostri stanno in guardia e non si lasceranno sfuggire i curiosi e gli spioni».

      Essendo il vento sempre favorevole e tendendo anzi a rinfrescare sempre più, avvicinandosi l’alba, la baleniera guadagnava via con crescente rapidità.

      Graziosamente piegata sul tribordo, coll’estremità del pennone inferiore quasi a fior d’acqua, scivolava senza far rumore sulle tranquille acque dell’ampia laguna, lasciandosi a poppa una striscia di spuma fosforescente.

      I due filibustieri tacevano, però si grattavano di quando in quando con furore.

      Erano le zanzare, le jejeus e le zancudos tempraneros, che di tratto in tratto calavano in nuvole fitte sulla scialuppa, punzecchiando ferocemente e dolorosamente i due avventurieri.

      Esse sono un vero flagello per quelle regioni e non lasciano tregua. In certe ore del giorno volteggiano le prime; di notte sono le seconde che si mettono in campagna e che montano la guardia, come dicono gl’indiani caraibi.

      E come sono dolorose le loro punture! Tanto che i poveri indiani, che non sono vestiti, preferiscono affrontare un feroce giaguaro, piuttosto che imbattersi in una nuvola di zancudos.

      Fortunatamente l’alba non era lontana. Le stelle cominciavano a scolorirsi e verso oriente una pallida striscia bianca con delicate sfumature rosa, cominciava a delinearsi al di sopra dei cupi ed immensi boschi della costa d’Altagracia e di La Rita.

      Tablazo, una delle due isole che chiudono o meglio riparano la laguna dalle ondate del golfo, si disegnava già colle sue belle e ricche piantagioni di cacao e di canne da zucchero e coi suoi pittoreschi villaggi, fondati sui bassifondi e abitati dagl’indiani.

      Quei villaggi, che allora s’incontravano dappertutto lungo le coste del golfo e della laguna di Maracaybo e che oggi sono piuttosto rari, davano un aspetto oltremodo grazioso a quella regione chiamata dai primi scopritori spagnoli Venezuela, ossia piccola Venezia.

      Ogni villaggio era formato da una sola abitazione, lunga parecchie centinaia di metri, capace però di contenere qualche centinaio di famiglie o anche più.

      Quelle lunghe case, situate a tre o quattrocento passi dalla riva e talvolta anche più lontano, viste in lontananza sembravano case galleggianti, invece erano costruite su solide palafitte, formate da pali di gajac tanto robusti da sfidare la scure e anche la sega e che rimanendo immersi si diceva acquistassero la durezza del ferro.

      Sopra i pali quegli abili costruttori avevano formato un’immensa piattaforma di legno leggiero, di bombax ceiba o di cedro nero, poi con bambù intrecciati innalzavano le abitazioni, coprendole con foglie di cenea o di vihai che sostituivano abbastanza bene le tegole o le ardesie.

      Non esistevano pareti, regnando tutto l’anno un calore intenso, quindi i naviganti potevano vedere, senza fatica, ciò che accadeva in quelle strane abitazioni, senza prendersi l’incomodo di entrarvi.

      La laguna cominciava a popolarsi.

      Dei canotti scavati nel tronco d’un cedro odoroso, montati da indiani quasi interamente nudi, scivolavano rapidamente sulle acque, lasciandosi dietro delle lunghe file di grosse zucche che le piccole ondate presto disperdevano; al largo alcune piccole caravelle veleggiavano lentamente, aspettando l’alta marea per approdare nei minuscoli porti dell’isoletta.

      «Sotto o sopravvento?» chiese l’amburghese.

      «Stringi sempre la costa» rispose Carmaux. «Passeremo fra Zapara e la costa».

      Capitolo terzo. La flotta dei filibustieri

      Alle otto del mattino, la scialuppa superava di volata lo stretto formato dalla punta orientale dell’isola di Zapara e la costa di Capatarida, entrando nel golfo di Maracaybo.

      Quantunque i due filibustieri avessero incontrate due grosse caravelle da guerra ed anche un galeone, nessuno li aveva disturbati, né avevano chiesto loro chi erano e dove si recavano.

      Le reti che tenevano lungo i bordi, dovevano aver fatto supporre agli spagnoli che fossero dei tranquilli pescatori e perciò nessuno si era preso la briga di fermarli.

      Appena giunti fuori dallo stretto, Carmaux e Wan Stiller misero la prora verso l’est, tenendosi un po’ lontani dalla costa, essendo quella cosparsa di bassifondi, dai quali sorgevano ancora in buon numero dei villaggi di caraibi.

      Anche in quel luogo si vedevano galleggiare moltissime grosse zucche, fra le quali nuotavano e giuocherellavano un bel numero di anitre e di gallinelle acquatiche, senza manifestare alcuna paura per quei galleggianti.

      «Dimmi un po’, Carmaux» disse Wan Stiller. «Servono a nutrire i pesci tutte quelle zucche? Ne sai qualche cosa tu?»

      «No, servono a prendere gli uccelli acquatici, mio caro amburghese».

      «Scherzi?»

      «Parlo da senno. Come tu sai tutti gli uccelli marini sono assai diffidenti e non si lasciano quasi mai accostare dalle scialuppe. I caraibi gettano dunque un gran numero di zucche che sono legate le une alle altre, con liane lunghissime, per abituare i volatili alla loro presenza. Quando credono giunto il buon momento, degli abili nuotatori si gettano in acqua, colla testa cacciata entro una zucca nella quale prima praticano alcune aperture per poter vedere liberamente».

      «Comprendo» disse Wan Stiller, ridendo. «Protetti dalla zucca s’avvicinano ai volatili e li tirano sott’acqua».

      «Precisamente» rispose Carmaux, «e ti posso dire anche che fanno delle caccie abbondanti e che non tornano mai ai loro villaggi senza portare, appesi alla cintura, otto o dieci volatili. Quando poi…»

      Uno sternuto sonoro gl’interruppe la frase. Don Raffaele aveva aperti gli occhi, e faceva sforzi disperati per alzarsi e per rompere i legami che gli imprigionavano le mani ed i piedi.

      «Buon giorno, señor» disse

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