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I Vicere. Federico De Roberto
Читать онлайн.Название I Vicere
Год выпуска 0
isbn
Автор произведения Federico De Roberto
Жанр Зарубежная классика
Издательство Public Domain
Né gli altri nipoti che il monaco adesso difendeva in odio alla morta, eccitandoli a rifiutare il testamento, avevano goduto mai le sue buone grazie. Bastava già che fossero figli di colei ch’egli considerava come sua personale nemica; ma poi, ai suoi occhi, avevan torti particolari tutti quanti, a cominciar da Chiara e da suo marito.
La gran colpa di quest’ultimo consisteva nell’esser stato scelto dalla principessa come genero e d’aver voluto bene a Chiara nonostante l’avversione dimostratagli dalla ragazza; anzi appunto per ciò don Blasco ci aveva sguazzato, potendo scagliarsi a un tempo contro di lui che voleva «ficcarsi per forza» in casa Uzeda, contro la principessa che voleva «violentare» la figlia e contro la nipote «sciocca e pazza tanto» da rifiutare un partito «come quello!…» Resistendo alla madre, Chiara veramente avrebbe dovuto riscuoter lodi e incoraggiamenti dallo zio monaco; ma don Blasco era fatto così, che quando qualcuno gli dava ragione egli mutava opinione per dargli torto. Il fidanzamento era stato perciò tutt’una guerra violenta fra cognato e cognata, tra zio e nipote ed anche tra madre e figlia, giacché la principessa ne aveva fatto anche qui una delle sue.
Per lei, come per tutti i capi delle grandi famiglie, i figliuoli desiderabili ed amabili non potevano essere se non maschi: le femmine non sapevano far altro che mangiare a ufo e portar via parte della roba di casa, se andavano a marito. Questa idea salica, molto ben radicata nel suo cervello, ammetteva veramente qualche eccezione – ella stessa, per esempio – ma verso la prole era la sola che la guidasse. Fra gli stessi maschi, tuttavia, ella non ne aveva considerati due egualmente. In vita, aveva quasi odiato il primogenito e idolatrato Raimondo; ma l’odiato era l’erede del titolo, il futuro capo della casa; e il preferito, nonostante il sacrificio di Lodovico, un semplice cadetto: pertanto ella aveva messo d’accordo il rispetto alla tradizione feudale e la soddisfazione della sua personale volontà deliberando, senza dirne nulla, di dividere le sue ricchezze ai due fratelli, cioè defraudando il primogenito, che avrebbe dovuto aver tutto, e favorendo l’altro che non avrebbe dovuto aver nulla. Degli altri due, Lodovico era stato quasi soppresso per dar posto a Raimondo, mentre Ferdinando aveva potuto vivere fin ad un certo punto libero e a modo suo. Verso le donne, invece, ella aveva nutrito un più profondo e uniforme sentimento di repulsione e quasi di sprezzo, lavorando a impedire che «rubassero» i fratelli. Angiolina, la maggiore, era stata condannata alla vita claustrale fin dalla nascita, per una colpa imperdonabile commessa nel venire al mondo. Dopo un anno di matrimonio, donna Teresa era vicina a partorire: aspettava un maschio, il primogenito, il principino di Mirabella, il futuro principe di Francalanza: ella non solo l’aspettava, ma non ammetteva che non venisse. Nacque invece una femmina: la madre non le perdonò più. Fin da quando la tolse dalle fasce la vestì da monachella: la bambina non parlava ancora che fu portata ogni giorno alla badìa di San Placido: a sei anni fu chiusa lì dentro «per educazione», a sedici la mite e semplice creatura, ignara del mondo, soggiogata dalla volontà materna e dagli stessi impenetrabili muri del monastero, si sentì realmente chiamata a Dio: in tal modo morì Angiolina Uzeda e restò Suor Maria Crocifissa.
Chiara, venuta subito dopo e rimasta in casa, aveva provato peggio il rigore materno; né la principessa l’aveva lasciata al secolo per paura del biasimo con cui la gente avrebbe considerato il sacrifizio di due figliole; bensì per esercitare ella stessa sulla ragazza una vigilanza e un’autorità più severa e più forte di quella che la Badessa esercita in una badìa. «Ma da una pazza come mia cognata,» soleva dire don Blasco, «e da una bestia come mio fratello, che cosa doveva venir fuori? Una bestiona arcipazza, naturalmente!» E che s’era visto, infatti? S’era visto che fin a quando la madre l’aveva tenuta in un pugno di ferro, questa figliuola aveva sempre chinato il capo, rispettosa e obbediente; il giorno poi che la principessa, trovato quello stupido del marchese di Villardita il quale s’offriva di sposare la giovane per niente, s’era persuasa di maritarla, ella aveva detto di no, di no, di no: cose veramente dell’altro mondo!… Il marchese, vista la ragazza di tanto in tanto, sotto lo scialle, in chiesa, se n’era innamorato, e la principessa, risolutissima a dargli la figliuola, lo aveva ammesso in casa; ma, scoraggiato dalla fredda accoglienza e dalle ostinate repulse di Chiara, persuaso da parenti ed amici che faceva una pazzia a sposar per forza chi non lo voleva, egli si sarebbe ritirato in buon ordine, se donna Teresa, che quando pigliava partito neppure il diavolo la faceva andar indietro, non gli avesse ingiunto di rimanere al suo posto. Così, quand’egli rivedeva la ragazza, seduta in un angolo, a capo chino, col fazzoletto in mano, aveva voglia di mettersi a piangere anche lui, «quel vitello», diceva don Blasco, «tanto tenero di cuore da innamorarsi del faccione lungo di mia nipote!» Chiara, infatti, non era una bellezza, e la madre, dapprima per dissuaderla dal matrimonio, poi per indurla ad accettare quel partito, le ripeteva tutti i santi giorni: «Che non ti guardi allo specchio? Non vedi quanto sei brutta? Chi vuoi che ti pigli?…», ma Chiara, di rimando: «Nessuno, tanto meglio! Se Vostra Eccellenza non voleva maritarmi? Mi lasci stare in casa!…» Di prima impressione come tutti gli Uzeda, Chiara non aveva voluto sentirne di quel promesso, per l’unica e sola ragione che era un poco pingue; ma, una volta preso quel partito, la cocciutaggine, ereditaria negli Uzeda molto più che l’impressionabilità, era stata la più potente ragione della resistenza opposta alla madre: fino all’ultimo momento, pertinace, ostinata, inflessibile, aveva detto che mai, mai, mai avrebbe sposato quella mezza botte,