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io infrangerò l’amore che nacque nel mio cuore. Sarò dannato, sarà un martirio continuo per me, ma lo farò. Parla, cosa devo fare?

      La giovanetta taceva e singhiozzava. Tremal-Naik l’attirò dolcemente a sé e stava per aprire le labbra, quando al di fuori echeggiò l’acuta nota del ramsinga.

      – Fuggi! fuggi, Tremal-Naik! – esclamò la giovanetta, fuori di sé pel terrore. – Fuggi o siamo perduti!

      – Ah! maledetta tromba! – urlò Tremal-Naik, digrignando i denti.

      – Essi arrivano, – proseguì la giovanetta con voce spezzata. – Se ci trovano, ci immoleranno alla loro spaventevole divinità. Fuggi! fuggi!

      – Oh giammai!

      – Ma vuoi tu adunque farmi morire!

      – Io ti difenderò!

      – Ma fuggi, disgraziato! fuggi!

      Tremal-Naik per tutta risposta raccolse da terra la carabina e l’armò.

      La giovanetta comprese che quell’uomo era irremovibile.

      – Abbi pietà di me! – diss’ella con angoscia. – Essi vengono.

      – Ebbene, io li aspetterò, – rispose Tremal-Naik.– Il primo uomo che ardirà alzare su di te la sua mano, giuro sul mio dio che lo ammazzo come una tigre della jungla.

      – Ebbene rimani, giacché sei irremovibile, prode figlio della jungla; io ti salverò.

      Ella raccolse il suo sari e si diresse verso la porta dalla quale era entrata. Tremal-Naik si slanciò verso di lei trattenendola.

      – Dove vai? – gli chiese.

      – A ricevere l’uomo che sta per arrivare ed impedirgli che qui entri.

      Questa sera, alla mezzanotte, io ritornerò da te. Allora si compirà la volontà dei numi e forse… fuggiremo.

      – Il tuo nome?

      – Ada Corishant.

      – Ada Corishant! Ah! quanto è bello questo nome! Va’, nobile creatura, a mezzanotte t’attendo!

      La giovanetta s’avvolse nel sari, guardò un’ultima volta, cogli occhi umidi, Tremal-Naik e uscì soffocando un singhiozzo.

      VI. La condanna di morte

      Uscita dalla pagoda, Ada, ancora commossa, col volto ancor bagnato di lagrime, ma gli occhi sfavillanti di fierezza, era entrata in un piccolo salotto coperto da stuoie dipinte e decorato da mostruose divinità, poco dissimili da quelle di già descritte. Il serpente dalla testa di donna, la statua di bronzo dal volto orribile e la vasca di marmo bianco col pesciolino rosso, non mancavano.

      Un uomo era di già entrato e passeggiava innanzi e indietro con visibile impazienza. Era un indiano di alta statura, magro come un bastone, col volto energico, lo sguardo lampeggiante e feroce, e il mento coperto da una piccola barba nera ed arruffata. Portava, avvolto attorno al corpo, un ricco dootèe, specie di mantello di seta gialla, trapunto in oro con in mezzo il misterioso emblema. Le braccia che aveva nude, erano coperte di cicatrici bianche e da bizzarri segni, che un indiano stesso si sarebbe rotto il capo senza pur decifrarli.

      Nello scorgere Ada, quest’uomo si era fermato di botto fissando su di lei uno sguardo che aveva dei bagliori strani, e le sue labbra s’atteggiarono ad un riso, anzi ad un sogghigno che incuteva spavento.

      – Salve alla vergine della pagoda – diss’egli, inginocchiandosi dinanzi alla giovanetta.

      – Salve al gran capo prediletto della divinità, rispose Ada con voce tremante.

      Entrambi tacquero, guardandosi fissamente. Pareva che cercassero reciprocamente di leggersi il pensiero che attraversava la loro mente.

      – Vergine della pagoda sacra, – disse dopo qualche tempo l’indiano, – tu corri un gran pericolo.

      Ada fremette. L’accento dell’indiano era cupo e minaccioso.

      – Dove sei stata questa notte? Mi dissero che tu sei entrata nella pagoda.

      – È vero. Tu mi inviasti dei profumi e li versai ai piedi della tua divinità.

      – Dici la nostra.

      – Sì, la nostra, – disse la giovanetta coi denti stretti.

      – Cos’hai veduto nella pagoda?

      – Nulla.

      – Vergine della pagoda, tu corri un gran pericolo, – ripeté l’indiano con voce ancor più cupa. – Io ho scoperto tutto!…

      Ada aveva fatto un balzo indietro, gettando un urlo d’orrore.

      – Sì, – proseguì l’indiano con rabbia concentrata, – ho scoperto tutto! Il tuo cuore, condannato a non battere mai su questa terra, ha palpitato d’amore per un uomo che tu vedesti nella jungla nera. Quest’uomo è sbarcato la notte scorsa sui nostri domini e dopo d’aver alzato la mano su di noi, d’aver commesso un orrendo delitto, scomparve, ma io lo ritrovai. Quest’uomo è entrato nella pagoda.

      – Tu menti! tu menti! – esclamò la sventurata giovanetta.

      – Vergine della pagoda, amando quell’uomo hai mancato ai tuoi doveri. Buon per te che quell’uomo non ardì alzare le sue mani su di te.

      – Tu menti! tu menti! – ripeté la giovanetta, smarrita.

      – Ma quell’uomo non uscirà vivo di qui, – ripigliò l’indiano con gioia feroce. – Folle, ei voleva sfidare noi potenti, noi che facciamo tremare l’Inghilterra. Il serpente entrò nella tana del leone e il leone lo sbranerà.

      – Non farlo!

      L’indiano si mise a sogghignare.

      – Chi è che s’oppone ai voleri della nostra divinità?

      – Io!

      – Tu?

      – Sì, io, miserabile. Guarda!

      Ada con un movimento rapido, aveva gettato a terra il sari, s’era armata di un pugnale dalla lama serpeggiante tinta d’un sottile veleno e se l’aveva appuntato alla gola. L’indiano da abbronzato che era, divenne nerastro.

      – Cosa vuoi fare? – chiese egli, sgomentato.

      – Suyodhana, – disse la giovanetta con un tono di voce da non lasciare dubbio. – Se tu tocchi un sol capello a quell’uomo, ti giuro che la tua dea perderà la sua vergine.

      – Getta quel pugnale!

      – Suyodhana, giura sulla tua dea che Tremal-Naik uscirà vivo di qui.

      – È impossibile. Quell’uomo è condannato: il suo sangue è già destinato alla dea.

      – Giuralo! – disse Ada con accento minaccioso.

      Suyodhana si raccolse su se stesso come per slanciarsi verso di lei, ma la paura di giungere troppo tardi l’arrestò.

      – Senti, vergine della pagoda, – disse egli, ostentando calma. – Quell’uomo sarà salvo, ma tu devi solennemente giurare che non l’amerai mai!

      Ada mandò uno straziante gemito e si torse disperatamente le mani.

      – Tu mi uccidi! – esclamò ella, singhiozzando.

      – Sei l’eletta della nostra dea.

      – Perché, mostruose creature, troncare sì presto una felicità appena nata? Perché spegnere sì presto il raggio di sole che inondava questo povero cuore chiuso ad ogni gioia? No, non è possibile ch’io infranga questa passione che è ormai gigante.

      – Giuralo e quell’uomo è salvo.

      – Sei tu dunque inesorabile? Non v’è più adunque alcuna speranza? Ma io rinnego la spaventevole tua dea che mi fa orrore, che maledii sin dal primo giorno che la fatalità mi gettò fra le vostre braccia.

      – Siamo

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