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Bennie.

      – Nelle vallate del Klondyke, un fiume che nasce sui fianchi del monte Sant’Elia.

      – Non lo conosco, non ho mai oltrepassato la frontiera dell’antica colonia russa, ma ho percorso i territori del Nord-Ovest e della Columbia britannica, e se quel fiume meraviglioso esiste… Corna di bisonte!… Noi lo troveremo!…

      – La sua esistenza non si può mettere in dubbio essendo, dopo l’Yukon, uno dei più grossi corsi di acqua dell’Alaska.

      – Allora noi ci andremo, signore. Io e Back ce ne intendiamo di placers e di claims, avendo già lavorato insieme nelle miniere argentifere del Colorado; e io ho cercato, per parecchio tempo, pagliuzze d’oro sul Fraser della Columbia.

      – Ecco due validi aiuti trovati miracolosamente – disse lo scotennato. – Fra tre mesi potremo arrivare nell’Alaska nella stagione propizia e faremo raccolta d’oro; però è necessaria la cassa.

      – Ci direte finalmente cosa contiene.

      – Degli oggetti che probabilmente non troveremo nei campi auriferi del Klondyke e che ci saranno di immensa utilità. C’è uno sluice per la lavatura della sabbia, delle zappe, delle vanghe, dei picconi e una considerevole quantità di mercurio, necessario per purificare il prezioso metallo.

      – Uno sluice e del mercurio!… Sono cose troppo utili per abbandonarle nella prateria, e che si devono assolutamente recuperare. Domani io e Back andremo a cercare il carro.

      – E gli indiani?

      – Bah!… Saranno ritornati ai loro wigwams per fare un’orgia di carne col bestiame del signor Harris.

      – E il carro, contate di condurlo con noi?… – Mi sembra che, per un viaggio così lungo ci debba essere più d’impiccio che di utilità, e vi proporrei di adoperare i nostri animali. Siete buon cavaliere, voi?…

      – Sì, lo sono, però la mia ferita non è ancora rimarginata e mi produce ancora dolori terribili.

      – Attenderemo la vostra guarigione, signore. Intanto mancando di viveri occuperemo il tempo a cacciare, e a seccare le carni.

      – Spero fra dieci giorni di poter essere in grado di tenermi in sella senza sofferenze.

      – Ve lo auguro, signore. Ehi, Back, hai niente da offrirci?… Io e Armando moriamo di fame.

      – Non ho per il momento che una fiaschetta di whisky, alcuni biscotti e delle mandorle di pino.

      – Per ora, ci accontenteremo, è vero. Armando?… Domani cercheremo di sorprendere qualche capo di selvaggina, dei topi di prateria, per esempio, che sono numerosi in questi paraggi.

      – C’è qualche cosa di meglio, Bennie – disse il messicano.

      – Cos’hai scoperto?…

      – Una tribù di castori.

      – Dove?

      – Alla foce d’un fiumicello che si scarica nel lago, un miglio più a sud.

      – Benissimo!… Se si tratta di una distanza così breve, questa sera spero di potervi offrire un arrosto di castoro. Verrete, Armando?

      – Disponete di me, signor Bennie.

      – Facciamo colazione, poi una dormita e prima del tramonto andremo a trovare quegli intelligenti roditori.

      X – LA CACCIA AI CASTORI

      Due ore prima che il sole compisse il suo giro, Bennie e Armando, che non si erano abbastanza saziati con le mandorle del pino gigante, lasciavano l’isolotto con la speranza di procurarsi una cena ben più sostanziosa e delicata. Avute da Back le indicazioni necessarie per trovare il corso d’acqua, salirono sui loro mustani già ben pasciuti e riposati, dirigendosi verso il lago. Tenendosi sempre sul margine della pineta, per potere, in caso di pericolo, nascondervisi, in meno di mezz’ora attraversarono la distanza, giungendo al limite di una vasta radura circondata da una prateria ubertosa, le cui graminacee avevano raggiunto dimensioni enormi, probabilmente a causa dell’eccessiva ricchezza del suolo. Il vecchio scorridore, nello scorgere la radura, aveva subito detto ad Armando:

      – Ecco le tracce del lavoro dei castori.

      Scesero di sella, legando i due animali a un ramo basso di una quercia nera e si misero a costeggiare in silenzio le rive di quello stagno, procurando di tenersi nascosti dietro ai cespugli che crescevano numerosi. Quel bacino, poco profondo, aveva un circuito di un mezzo miglio e pareva abitato da soli volatili. Infatti non si vedeva che qualche superbo cigno che nuotava in mezzo all’acqua, qualche coppia di avvoltoi, brutti uccellacci grossi come tacchini, schifosi volatili che quando si vedono inseguiti, o feriti, vomitano addosso ai cacciatori il cibo che stanno digerendo, e pochi trampolieri, grossi come allodole e con le gambe lunghissime. Bennie e Armando, che procedevano sempre cauti, sapendo quanto siano diffidenti i castori, erano già giunti all’estremità opposta del bacino e stavano inoltrandosi in una valletta che pareva conducesse a un corso d’acqua, quando udirono un fragore assordante che pareva prodotto dalla caduta di un grosso albero dentro uno stagno.

      – Gli indiani?… – chiese Armando, armando precipitosamente il fucile.

      – No – rispose Bennie, sorridendo. – Sono i castori.

      – A produrre questo fracasso?…

      – Hanno fatto cadere qualche grosso pino.

      – I castori!… Degli animali così piccoli? – chiese Armando, con stupore.

      – Vi sorprende?

      – Non vi pare che ci sia da meravigliarsi?

      – Vi credo, perché voi non conoscete ancora i castori e non avete mai visto le dighe che quei piccoli rosicanti costruiscono.

      – Delle dighe?…

      – E che sembrano costruite dagli uomini, giovanotto. Quei meravigliosi costruttori, per ottenere dei bacini tranquilli che non vadano soggetti a piene, che non tarderebbero ad inondare le casette della colonia e anche a distruggerle, erigono sui corsi d’acqua delle dighe di una solidità incredibile che fanno argine alla corrente e la costringono qualora crescesse, a rovesciarsi altrove.

      – E con quali materiali?…

      – Con gli alberi che prima abbattono o meglio fanno cadere rosicchiandoli alla base, e che poi spingono nel fiume.

      – È incredibile, signor Bennie.

      – Può sembrarvi incredibile, ma più tardi vedrete che non vi ho raccontato delle frottole. Realmente, guardando quelle dighe che talvolta sono lunghissime, si stenterebbe e crederle opera di animali così piccoli. Voi non lo crederete, eppure i castori, specialmente in questi territori, e anche in quelli più settentrionali, con i loro argini hanno fatto subire al suolo delle trasformazioni straordinarie; hanno creato laghi e canali; hanno inondate foreste immense facendo morire gli alberi; hanno modificato il corso di numerosi fiumi e hanno tramutato delle paludi in opulente praterie. Si calcola che questi animaletti abbiano sommerso con le loro barriere, metà del territorio nelle vicinanze della baia di Hudson.

      – E sono lunghe le dighe?…

      – Ce ne sono alcune che misurano perfino mezzo miglio.

      – Sommergendo tante terre i castori devono produrre danni rilevanti.

      – Certo, e la loro razza, cacciata accanitamente, va rapidamente scomparendo. La loro pelle è sempre ricercata, e i cacciatori della baia di Hudson e quelli della Compagnia Americana dell’Alaska compiono ogni anno delle vere stragi.

      – Ditemi, signor Bennie, è vero che i castori sanno fabbricarsi delle vere casette?

      – Verissimo e ve lo mostrerò fra poco. Sono di forma rotonda, solitamente costruite con legni leggeri, per lo più di salice o di ontano, e spalmate con una specie di stucco impermeabile.

      – E come fanno a spalmarle con lo stucco?…

      – Si servono della loro larga coda.

      – Come

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