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luci degli astri.

      L’aria era di una purezza ammirabile, d’una trasparenza cristallina, ed in alto scintillavano a milione le stelle, le quali parevano seguissero il corso del vascello volante. All’orizzonte, una tinta lievemente argentea annunciava il prossimo spuntare dell’astro notturno e si rifletteva sulle lontane acque dell’oceano, che prendevano, in quella direzione, una tinta madreperlacea d’un effetto ammirabile, veduta da quell’altezza. O’Donnell, sorpreso e stupito, guardava quella scena senza parlare, curvo sulla poppa del battello d’alluminio; Kelly continuava le sue osservazioni e guardava particolarmente i suoi barometri per rendersi conto della discesa dell’aerostato; il negro Simone, più che mai spaventato, batteva i denti per il freddo, che diventava acuto, e per il terrore, tenendosi sempre aggrappato, con la forza della disperazione, alle corde di sostegno.

      “Tremila metri” disse ad un tratto l’ingegnere.

      “E scendiamo ancora?”

      “Sempre.”

      “Che il nostro peso sia soverchio?”

      “No: è l’idrogeno che si restringe per il freddo.”

      “Che sfugga invece da qualche apertura?”

      “Sentite odore di gas?”

      “No.”

      “Tutto dunque va bene.”

      “Ma fino a quando scenderemo?”

      “Lo sapremo più tardi.”

      “Finiremo per toccare l’oceano?”

      “Forse nelle notti seguenti; ma ora no: la forza ascensionale del nostro aerostato è per ora troppo potente. Oh! Oh!”

      “Cosa avete?”

      L’ingegnere non rispose. I suoi occhi si erano fissati sulle due bussole, e la sua fronte si era corrugata.

      “Che la corrente da me studiata, e che soffiava costantemente dal sud-ovest verso il nord-est, finisca qui?” mormorò. “Ciò sarebbe grave.”

      “Ma che cosa avete?” insistette l’irlandese. “Ho da darvi una seria comunicazione, O’Donnell.” rispose l’ingegnere. “Noi abbiamo virato di bordo, come dicono i marinai.”

      “E cosa importa?”

      “Voi sapete dove ci spingerà ora il vento?”

      “Io no.”

      “Intanto ci riconduce verso l’America.”

      “In direzione del banco!”

      “No: verso il nord-ovest, dritti allo stretto di Davis, fra la Groenlandia ed il Labrador.”

      “Brutta scoperta, in fede mia! Cosa pensate di fare? Mi spiacerebbe assai ritornare nel Canada.”

      “Se ci trovassimo vicini alla superficie dell’oceano, getterei le mie ancore: ma siamo tanto alti che tutte le nostre funi riunite non toccherebbero l’acqua.”

      “E non ci si può abbassare di più?”

      “Sì, ma dovremmo sacrificare una parte del nostro gas, e capirete che per noi è troppo prezioso per lasciarlo fuggire.”

      “A quale distanza ci troviamo dal banco di Terranova”

      “A centosettanta miglia.”

      “E ritorniamo?”

      “Con una velocità di sessanta miglia all’ora. Continuando in questa nuova direzione, avvisteremo il Labrador fra quattro o cinque ore.”

      “Dannato vento! Speriamo che cambi. Mister Kelly, quantunque non mi dispiaccia di andare al polo invece che in Europa. Sarebbe una magnifica scoperta.”

      “Che per il momento lascio ad altri, O’Donnell, non avendo portato con me vesti adatte a quei terribili freddi, né una cucina portatile per farci qualche bevanda calda. Se il vento ci spinge in quella direzione, scenderemo alla prima terra e riprenderemo il tentativo più tardi, su un’altra costa.”

      “Mi spiacerebbe assai.”

      “E anche a me. Speriamo però che la corrente si ristabilisca col levar del sole.”

      “Che la vostra corrente si mantenga a 3500 metri?”

      “Può essere che al di sotto di quell’altezza ne esista un’altra, quella che ora ci porta al nord-ovest.”

      “Gettiamo zavorra e innalziamoci.”

      “Sarebbe una grande imprudenza, O’Donnell: ci priveremmo di un peso che più tardi potrebbe esserci di estrema necessità, e quando il sole dilaterà il nostro idrogeno, noi saliremmo a tale altezza da non poter resistere. A 8000 metri la rarefazione dell’aria è mortale, o poco meno; a 9000 nessuno di noi resisterebbe.”

      “Lasciamo dunque che il vento ci porti al nord-ovest, e domani vedremo.”

      “Continuiamo a scendere?”

      “Sì,” rispose l’ingegnere. “E da questa discesa spero assai di fermare l’aerostato. Eccoci già a 2500 metri, e non ci arrestiamo ancora: l’idrogeno si raffredda rapidamente: tanto meglio!”

      Infatti il pallone, o meglio i due palloni, a causa dell’umidità della notte, che li rendeva più pesanti, e del freddo acuto che restringeva l’idrogeno, calava a vista d’occhio, facendo dei bruschi salti. Si arrestava un momento, poi scendeva, come se le sue forze venissero improvvisamente meno e l’idrogeno perdesse la sua potenza ascensionale, poi tornava a fermarsi per riprendere, qualche minuto dopo, le sue ricadute.

      O’Donnell, quantunque avesse grande fiducia in quel vascello aereo e nel suo inventore, cominciava a diventare inquieto. In quanto a quel poltrone di Simone, ad ogni ricaduta mandava sordi gemiti e guardava con occhi smarriti la cupa superficie dell’oceano, che si avvicinava rapidamente. Quel povero diavolo si riteneva ormai perduto ed aspettava, con inesprimibile angoscia, il momento in cui l’aerostato sarebbe stato inghiottito.

      L’ingegnere invece era tranquillo, anzi benediceva in cuor suo quell’umidità e quel freddo, che gli permettevano di gettare le sue ancore e arrestare quella marcia verso regioni affatto opposte a quelle che sperava di raggiungere.

      Alle 9 di sera l’aerostato non era che a mille metri dall’oceano. Si udivano distintamente i sordi muggiti delle cupe ondate, e si distingueva nettamente la spuma che le copriva.

      Alle 10 era a 500 e alle 11 e un quarto a 300. La discesa si arrestò: l’equilibrio si era ristabilito.

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