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      «Kyle. Lavoro». Vikash lo disse gentilmente, ma dovette faticare per impedire al suo sguardo di saettare in giro per vedere se qualcuno avesse sentito.

      «Non sto mica urlando», sibilò Kyle. «Buon Dio, Kash. La paranoia sta iniziando a fare un po’ la muffa».

      «Il lavoro è lavoro e casa è casa».

      «Sì, sì, e mai i due dovranno incontrarsi. Non è che ti stia mettendo all’angolo per una sveltina nella sala riunioni. O dandoti baci in bocca in bagno».

      «Sviluppo interessante».

      «Cosa?»

      «L’aumento di allitterazioni quando sei agitato».

      «Io non sono agitato. Solo un po’ irritato perché continui a saltare e contorcerti se mi avvicino troppo in qualunque posto al di fuori dei nostri appartamenti. Siamo entrambi del professionisti al lavoro. Non insisto che ci teniamo per mano le rare volte che andiamo a cena fuori. Mi urta che continui a sembrare, non so, imbarazzato da noi».

      «Hai promesso di mantenerti professionale al lavoro».

      «Calma, Soren». Carrington gli batté sulla spalla mentre gli passava accanto. «Proporre una cena da asporto non ha niente di poco professionale».

      «Hai sentito?» Il cuore di Vikash gli martellò contro lo sterno. Tutta la stazione lo sa. Tutti lo vedono.

      «Orecchie da vampiro, mio caro. Cosa c’è che non sento? Sul serio, però. Rilassati. Nessuno ha il tempo di interessarsi alla vostra piccola tresca illecita».

      Vikash avrebbe potuto accettare il consiglio se Virago non avesse tuonato dall’altra parte della stanza: «Ehi! Di che state sussurrando voi ragazze? Andate a qualche bar con arcobaleni e lustrini?»

      «Solo se vieni anche tu!» Kyle fece versi da bacio in direzione di Virago. «Non dimenticare la borsetta!»

      «Piantala, Vance», mormorò Amanda mentre passava accanto a Virago e gli dava uno scappellotto sulla nuca. «La tua quip… equicazz.. qual è quella parola, Carr?»

      «Equiparazione», disse di rimando Carrington senza la minima esitazione.

      «Già, quella parola… di uomini gay e vere ragazze è offensiva».

      «Scusa, Manda».

      Di norma, Vance Virago, autoproclamato duro, che si faceva piccolo mentre si scusava sarebbe stato divertente. Vance non poteva averli sentiti dall’altra parte della stanza. Stava solo bullizzando Kyle come faceva sempre. Ma il tempismo era stato orribile e, tra quelle parole omofobiche e i sussulti di Vikash, era riuscito a cancellare la tranquilla contentezza dal volto di Kyle. Lo addolorava il fatto che Vance potesse riuscirci. Peggio ancora, Vikash non aveva idea di cosa fare a riguardo.

      «Kyle…»

      Non ebbe la possibilità di dare neppure una minima spiegazione o scusa però, dato che un’allerta inviata dalla tenente comparve sullo schermo, ordinando loro di andare a indagare su un disturbo della quiete a Fairmount Park.

      Vance si spinse via con violenza dalla propria scrivania. «Oh, amico!»

      E il nostro omofobo locale è il nostro rinforzo. L’irritazione si arrampicò lungo la schiena di Vikash. Kyle non aveva mai fatto nulla a Vance tranne rifiutarsi di piegarsi al suo bullismo. Alcuni giorni era a un punto tale che Vikash avrebbe voluto compilare una denuncia di molestie sul lavoro per conto di Kyle, anche se a lui avrebbe dato fastidio l’intromissione. Era comunque sbagliato e… Oh, cavolo.

      Nella collera crescente, Vikash sentì la fastidiosa sfera riscaldata di potere al centro di lui che annunciava la manifestazione del suo strano talento. Quasi andò nel panico: l’istinto di allungare la mano sopra la scrivania e afferrare Kyle era possente. Assieme, avevano una possibilità di direzionare il fulmine di collera in qualche punto dove sarebbe stato innocuo. Magari verso il vecchio tritadocumenti che si inceppava dopo ogni pagina. Ma toccare Kyle significava anche che il potere si sarebbe amplificato in una bizzarra fusione dei loro talenti paranormali difettosi. Per non menzionare il fatto che toccare Kyle nella sala degli agenti non faceva che dare ulteriori munizioni a Vance.

      Poi fu troppo tardi per le scelte. Il potere eruppe da lui mentre stava seduto immobile, lottando per tenere qualunque reazione fuori dalla sua espressione. Uno schiocco e un distinto sfrigolio elettronico risuonarono alla sua sinistra facendolo rimpicciolire.

      «Vaffanculo!» urlò Vance, schiaffeggiando il monitor fumante del suo computer.

      Jeff si alzò per aiutarlo a soffocare le piccole fiamme con un asciugamano. «Maledizione, Vance. Che hai fatto stavolta?»

      «Non sono stato io! Giuro!»

      «La tenente non ti permetterà più di avere un computer se continui a romperli».

      Vikash si girò all’indietro e trovò Kyle che fissava lui anziché guardare la confusione, le labbra serrate assieme in una linea collerica.

      «Non mi serve che tu mi protegga, Kash».

      «Non era… mi è sfuggito».

      Kyle sbuffò dal naso. «Certo».

      Trattenendo un sospiro, Vikash prese il cappello e seguì Kyle alla loro auto di pattuglia, bianca con la banda azzurra come tutte le autopattuglie della polizia della città di Philadelphia. La loro stazione però aveva anche il distintivo nero e oro del 77° sopra la striscia blu, a marchiarli permanentemente come qualcosa di diverso.

      Per una volta, Vikash avrebbe voluto che il viaggio verso la scena fosse più lungo. Non per la prima volta, avrebbe desiderato essere agile sui suoi piedi verbali. «Kyle…»

      «Mettilo in un posto sicuro per me, Kash». Kyle allungò una mano per dargli una pacca sul ginocchio. «Tieni stretto qualunque cosa stia filtrando e cuocendo là dentro. Al momento, abbiamo due frasi di cui dobbiamo preoccuparci. Disturbo e attaccato da una palla di rametti. Non perdiamo la concentrazione quando non sappiamo in cosa cazzo ci stiamo cacciando».

      «Come sempre».

      «Già. Amo le sorprese».

      «Le odi».

      «Shh. Sto tentando un po’ di autoconvincimento qui. Non rovinarmelo».

      Eccolo di nuovo. Nonostante tutti i suoi dubbi e il senso di colpa, Kyle aveva contorto la gruccia delle sue parole, si era insinuato dentro e aveva pescato un sorriso da Vikash. A volte, come in quel momento, un pochino di irritazione arrivava col sorriso, per il fatto che Kyle riuscisse a fargli perdere anche quella briciola di controllo. Ma comunque gli avvolgeva uno strato di calore attorno al cuore malandato. Kyle era come una coperta appena uscita dall’asciugatrice in una mattina invernale. L’immagine alquanto sdolcinata lo fece ridacchiare.

      «Che c’è?»

      «Niente. Coperte. E asciugatrici».

      «Certi giorni sei davvero tanto strano». Kyle fece un cenno della testa vero il loro computer di bordo. «Ti prego, dimmi che abbiamo un aggiornamento sull’ultima posizione. Dire a Fairmount Park è utile quanto dire da qualche parte tra qui e Lancaster».

      «Mount Pleasant».

      «Grazie, dio dei punti di riferimento specifici».

      Vikash girò la testa mentre un segnale stradale sfrecciava loro accanto. «Il GPS dice di prendere Kelly Drive».

      «Il GPS del cavolo può andare a fare in culo in silenzio in un angolo. Ho vissuto qui per tutta la vita, Kash. La Reservoir ci farà arrivare più in fretta».

      «Il GPS non è davvero progettato per quello».

      Kyle gli rivolse uno di quegli splendidi sorrisi storti che Vikash adorava così tanto. «Probabilmente no. Ma potrebbe divertirsi parecchio provandoci».

      Erano caduti dieci centimetri di neve la notte prima, ricoprendo i marroni e i verdi del parco

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