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propria di Francesco non è un ideale ma qualcosa di concreto. Senza dubbio egli pensa che una riforma esteriore delle strutture non sia sostenibile senza uno spirito e uno stile di vita adeguati» 15.

      In tale contesto interpreta correttamente il pensiero di Francesco E. Bianchi quando scrive: «Papa Francesco coglie il prefisso ri-formare non solo come processo sempre da riprendersi, non solo come recupero di ciò che si è perso ma, in senso “responsoriale”, come risposta, come responsabilità nei confronti della vocazione del Signore. Se la riforma ecclesiale ha come criterio la carità evangelica ed è tale da impegnare tutti i membri, allora può anche essere riforma delle istituzioni. Di conseguenza, secondo Bergoglio, la riforma riguarda anche il papato come forma di esercizio del ministero petrino: ministero voluto da Cristo stesso, essenziale alla vita della Chiesa cattolica, certo. Ma la forma e lo stile del suo esercizio non solo possono ma devono essere riformate, affinché la Chiesa sia sempre più conforme alla volontà del suo Signore» 16.

      Altro elemento da considerare per entrare nell’idea che ha Francesco della «riforma» è certamente la sua ispirazione ignaziana. Egli l’ha espressa nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2016 quando ha ripreso l’adagio deformata reformare, reformata conformare, conformata confirmare e confirmata transformare. Si tratta di passaggi progressivi che richiamano il percorso delle quattro settimane degli Esercizi spirituali, dove la prima corrisponde alla cosiddetta «via purgativa» (deformata reformare), la seconda a quella chiamata «via illuminativa» (reformata conformare), la terza e quarta settimana corrispondono alla «via unitiva» (conformata confirmare e confirmata transformare).

      In questi passaggi la parola «forma», con le diverse accezioni denotate dai diversi prefissi, ha il significato di un lasciarsi plasmare da Dio, come in principio egli fece con Adamo. Gli esercizi spirituali, infatti, sono proprio questo: «Disporre l’anima a liberarsi da tutti gli affetti disordinati e, una volta che se ne è liberata, a cercare e trovare la volontà divina nell’organizzare la propria vita per la salvezza dell’anima» (ES 2) 17.

      All’ispirazione ignaziana, A. Spadaro riferisce altri aspetti del pensiero di Francesco circa la reformatio. Anzitutto la dinamica del «discernimento» sicché la stessa riforma della Chiesa «non è un progetto, ma un esercizio dello spirito che non vede solamente bianchi e neri, come vedono coloro che vogliono sempre «fare battaglie». Bergoglio vede sfumature e gradualità: cerca di riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana e culturale…». Qui il P. Spadaro mi sembra alludere al principio ignaziano del «cercare e trovare Dio in tutte le cose». Un altro aspetto è quello sviluppato alla luce del principio Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo divinum est, ch’è l’epitaffio composto per Ignazio di Loyola. Vuol dire che ogni grande progetto di riforma si realizza nel gesto minimo, nel piccolo passo. La riforma, poi, è un processo che affronta i limiti, i conflitti e i problemi che sono parte integrante di ogni cammino spirituale ed anche le tentazioni, poiché il discernimento è anche uno strumento di combattimento spirituale.

      Prima di concludere, poiché il tema del seminario intende allargare lo sguardo da Paolo VI a Francesco, mi preme sottolineare un’ultima cosa ed è che nel suo modo d’intendere la riforma, Francesco si mostra molto vicino all’idea maturata in Paolo VI. Nell’Udienza generale del mercoledì 7 maggio 1969, egli disse: «Noi, che non meno d’alcun altro desideriamo la giusta riforma della Chiesa (cf. Ecclesiam suam), pensiamo che sia «un segno dei tempi», una grazia del Signore, la possibilità che oggi è offerta alla Chiesa di attendere alla sua propria riforma. Opera questa che deve sempre essere in atto di riconoscere la fragilità degli uomini, anche se cristiani, e di correggere le loro eventuali debolezze e le deformazioni del corpo ecclesiastico; inteso nel suo senso genuino, possiamo far nostro il programma d’una continua riforma della Chiesa: Ecclesia semper reformanda (cf. Congar, Vraie et fausse réforme dans l’Église. París, Cerf, 21969, pp. 409ss)». Ciò che Montini con queste parole criticava fortemente era un riformismo «estrinseco e polemico, semplicistico e facilone, frettoloso e iconoclasta» fondato su banali manicheismi, laddove, al contrario, è necessario avere a cuore «la riforma intellettuale e morale, la riforma interiore come fondamento del rinnovamento vero della Chiesa nel postconcilio […]. Doveva essere la novità di vita inaugurata dal Vangelo» 18.

LA SINODALIDAD. DE PABLO VI A FRANCISCO

      SINODALIDAD.

      DE APOSTOLICA SOLLICITUDO

      A EPISCOPALIS COMMUNIO 1

      DARIO VITALI

      Pontificia Universidad Gregoriana

      Roma

      «Sinodalidad», una palabra de la que poco o nada se entiende en el lenguaje corriente, pero que está muy de moda en la Iglesia. Y como todas las palabras de moda está sometida a usos y abusos de cualquier tipo. Su empleo en el lenguaje eclesial se ha multiplicado bajo el pontificado del papa Francisco: si los cardenales pidieron, en cónclave, «más colegialidad», el papa parece traducir esta instancia en «más sinodalidad». Dos sínodos sobre la familia –uno extraordinario, otro ordinario– pusieron a la Iglesia en estado permanente de sinodalidad; el Sínodo de los jóvenes ha subrayado cómo cada situación, cada ámbito, cada cuestión en la Iglesia, afecta a la sinodalidad. El Sínodo de los obispos es el lugar elegido donde discutir las cuestiones más urgentes y complejas de la Iglesia.

      Pero hay algo más: estas experiencias sinodales abrieron el camino a la comprensión de la Iglesia –y no solo del Sínodo de los obispos– en clave sinodal. El papa, en el momento de afirmar que «la sinodalidad es lo que el Señor espera de la Iglesia del segundo milenio» 2, habla de una Iglesia constitutivamente sinodal. Esta afirmación está en el fundamento de la Constitución Episcopalis communio 3, con la que el papa intervino el año pasado, estableciendo nuevas normas para la celebración del Sínodo de los obispos. Este documento, comparado con el motu proprio Apostolica sollicitudo, de Pablo VI, nos permite comprender cómo ha ido evolucionando el tema de la sinodalidad desde la institución del Sínodo hasta hoy.

      En esta comunicación trato de leer –mejor, de interpretar– este largo camino, fijando las etapas más relevantes de una praxis y de un estilo eclesial que, después de cincuenta años, aún está en los primeros pasos, como un niño que aprende a caminar y cada día que pasa se manifiesta más seguro, más libre, con más capacidad y deseo de explorar posibilidades antes desconocidas.

      1. El punto de partida: la institución del Sínodo de los obispos

      Muchos piensan que la sinodalidad es un tema expresado por el Vaticano II. Frente a realidades, palabras, conceptos que se distancian del modelo tridentino de Iglesia, se habla –casi como un reflejo condicionado– de la novedad del Vaticano II. En realidad, en el Concilio no se trató la sinodalidad; la palabra synodus 4, en 140 de las 141 citas, es sinónimo de concilio, y siempre se refiere al concilio que se está celebrando. Claro que todas estas recurrencias dicen algo: el valor de estas citas, aunque no hablen directamente de sinodalidad, consiste propiamente en la identificación del concilio ecuménico como sancta Synodus, eligiendo al propio concilio como la forma más alta de sinodalidad y, por tanto, como el término de comparación para cualquier ejercicio de la sinodalidad en la Iglesia.

      De este uso masivo se destaca una cita que se refiere a la sinodalidad. Se trata de una alusión al Sínodo de los obispos, que Pablo VI instituyó al comienzo de la cuarta y última sesión conciliar (el 15 de septiembre de 1965), y que el decreto Christus Dominus asumió en el marco del discurso sobre la función de los obispos en la Iglesia universal (cap. I). El texto se expresa así:

      Los obispos elegidos en las diversas regiones del mundo, de la forma y por las razones que haya establecido o establecerá el Romano Pontífice, prestan al supremo pastor de la Iglesia una ayuda más eficaz en el Consejo que recibe el nombre de Sínodo de los obispos. Este, al realizar la función [partes agens] de todo el episcopado católico, pone de manifiesto al mismo tiempo que todos los obispos participan en comunión jerárquica de la solicitud por la Iglesia universal (CD 5).

      El documento

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