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incontra s'inchina devoto fino a toccar le briglie col capo. E viaggia. Senza questi segni manifesti di adorazione cattolica, ei si direbbe un evaso dai roghi del Sant'Ufficio che provò già i primi lambimenti del fuoco.

      La notte sale sulla montagna e il bruno cavallo con essa. Le due Castiglie s'addormentano nel buio senza neanche un auto-da-fé per fiaccola notturna.

      Un soffio di vento fa cadere il cappuccio sulle spalle del cavaliero, e il cavaliero schiude il suo volto alla limpidezza del cielo. È un giovanetto bello di bellezza ideale, biondo come un bambino e abbronzito come un guerriero. Gli arcangeli che pellegrinavano sulle sabbie della Palestina ai primi anni di Cristo, dovevano risalire l'azzurro abbronziti così. Ed egli aveva dell'arcangelo anche la vaga età, come la ideava Murillo, errante fra i quindici e i dieciott'anni. Al pudico ceruleo degli occhi si avrebbe detto quindici, al fiero congiungimento delle labbra si avrebbe detto dieciotto. Egli correva ancora, benché il sentiero salisse erto e selvoso.

      La notte s'avanzava e il bel cavaliero tornava a nascondere il suo viso nella folta penombra, il suo viso apparso come meteora, un istante, fra i fuggenti riverberi del crepuscolo. Giunto a una più erta salita, scende di cavallo e cammina. Alla foga quasi paurosa è succeduta una più paurosa lentezza. Il giovanetto fa passi radi, brevi e tremebondi; il suo cavallo affranto lo segue.

      Giunto a mezzo del monte incomincia a cantare un'alba provenzale che l'eco della valle deserta ripete così:

      Erransa

       Pezansa

       Me destrenh e m balansa;

       Res no sai on me lansa,

      e continua a salire sempre più lento per vie sempre più selvaggie.

      Mancano due ore a mezzanotte quand'egli arriva agli spaldi d'un immenso castello ritto sul ciglione d'una rupe. Il giovanetto lega il suo puledro alla massiccia balaustra del ponte levatoio; poi s'appoggia col gomito sulla sella e rimane immobile in quell'atteggiamento qualche minuto. Indi ripiglia a cantare con voce intensa e tremante:

      Nacido en Castilla,

       Enamorado en Leon,

      e un'altra voce più fluida e più bianca risponde:

      Nacida en Leon,

       Enamorada en Castilla,

      e il ponte levatoio è abbassato, ed appare una forma bianca come la voce che aveva cantato, e il giovanetto passa, e s'odono, in fondo al porticato oscuro, mormorar questi nomi:

      "Estebano".

      "Elisenda".

      II.

      —Principe, mi apparite più veloce del sogno e più pronto della speranza!

      —Mi posi in viaggio all'aurora con tre puledri, uno bianco, uno sauro e uno nero; salii sul bianco a Castiglia, gli altri due mi seguivano. A Palenza il bianco morì e salii sul sauro; a Salamanca il sauro morì e salii sul nero, che ora dorme laggiù fuor dello spaldo.

      —Cugino Estebano, il sangue dei nostri grand'avi bolle fieramente nelle nostre vene. I re di Castiglia erano chiamati aguilas en sus caballos.

      —E le regine di Leone erano dette fadas en sus castillos, principessa Elisenda, graziosa cugina mia.

      L'accento di quest'ultime parole sonò grave e oscillante sulle labbra del giovanetto, come la cadenza d'un canto.

      —In dieci anni che non ci siamo visti è cresciuta in voi la statura del corpo e la gentilezza della parola. Vi stanno ancora nella memoria le serenate di Valadolid?

      —I due versi che ho cantato poc'anzi ve ne fanno fede. Avevo sett'anni quando li composi per voi nel parco della defunta principessa Blanca vostra augustissima madre; e cinque anni avevate voi quando per la prima volta mi rispondeste cantando come questa sera.

      —Sì; me ne rammento tanto, tanto. Io vi chiamavo Menestrello e voi mi chiamavate Reina. Voi portavate i miei colori, io ripetevo le vostre canzoni; e mi ricordo d'una volta che vi nascondeste nel bosco dei leandri per piangere un giorno intero quando scopriste che il verso Enamorado en Leon era sbagliato; né prima ve n'eravate accorto, né poi lo sapevate correggere.

      —E non l'ho ancora corretto, principessa.

      —Spero che non lo correggerete mai.

      Dopo queste parole il castello echeggiò alle risate dei due giocondi cugini.

      Indi Estebano ricominciò:

      —E Don Sancio, il vostro buon nonno, come morì?

      —Povero nonno! morì di vecchiaia, la morte del leone. Egli presentiva l'ora della sua fine. Tre dì prima di andarsene in paradiso vergò il suo testamento, quello che leggeste ieri a Castiglia; piegò, suggellò e v'inviò egli stesso lo scritto. Il giorno dopo, che fu ieri, escì dal castello coll'archibugio ed uccise tutti i corvi e tutti gli avvoltoi di queste gole; poi si riposò. Oggi, prima dell'alba, mi prese per mano e mi condusse sulla cornice d'un burrone, da dove quel forte vegliardo soleva ogni dì contemplare il crepuscolo. Lì, sull'orlo dell'abisso, appoggiando la schiena contro la roccia nuda, parlò a me, che lo guardavo dal ponte, così: "Principessa Elisenda de Sang-Real, figlia di colui che nacque dal figlio di tutti i re di Leone, sappiate che oggi, quando il sole comparirà in questa rupe, io sarò morto. Non piangere, ma ascolta. Quest'aurora è il tramonto mio". (Ed egli mormorava ciò mentre voi, cugino, sellavate a Castiglia il cavallo bianco). "Ti ricordi", soggiunse, "a Madrid quel vecchio toro che non sapeva più combattere nel circo e che penava a morire? Tu eri ancora bambina e ridevi guardandolo e lo beffavi: io, per moderare il tuo riso, che non s'addiceva a prole di regnatori, ti dissi:—Donna Elisenda, sul davanti della vostra bocca ognun vede che manca qualche tenero dente di latte—; allora ti facesti seria e chiudesti le labbra. Oggi che hai tutti i tuoi denti e che nessuno ti scorge, puoi sorridere, figliuola mia; il toro decrepito c'è ancora". E intanto che il vecchio parlava s'udì nell'alvo dell'azzurro il gorgheggio della prima lodola. Don Sancio levò la testa come per cercare nell'aria l'augellino canoro e poi sclamò: "Ecco già il grillo del paradiso! Da queste vette al cielo c'è poca distanza… tu non aver paura, figliuola, non turberò le tue notti. Per sola esequie accenderai nell'oratorio, questa sera, l'antica torcia benedetta che fu la face tutelare della nostra stirpe, da Alfonso VIII fino a te. Abbi gran cura di quel sacro cero, bada che per ispegnerlo ci vuole l'alito d'una sposa; ti sarà spiegato poi questo mistero. In quella fiamma è chiuso il fato della nostra razza. Quel cero fu tratto dall'arnie che popolano le valli dove nacque Gesù; lo portò da Terra Santa uno de' nostri avi eccelsi. Il profetico frate che glielo porse gli disse:—Finché questo cero arderà vivranno i troni di Spagna.—D'allora in poi avemmo sempre per costume d'accendere quella preziosa reliquia ad ogni nostro funerale e ad ogni nostro imeneo. Ora non puoi ancora comprendere tutta la sapienza dell'oracolo avvinto alla vetusta reliquia. Sappi soltanto che l'alito d'una vergine, su quella vergine cera, estinguerebbe insieme alla fiamma la grazia divina che veglia sulla nostra progenie, e la progenie sarebbe spenta con essa. Elisenda, le anime dei tuoi figliuoli si accenderanno alle faville di quel cero serafico, ma prima di spegnerlo attendi Estebano tuo. Egli arriverà questa notte, gli ho scritto; arriverà questa notte, ti sposerai ad Estebano; un vecchio moribondo è vicino a Dio più del più santo sacerdote, ed io stendo verso di te la mia mano non ancora tremante e benedico il tuo regio imeneo. Gli angeli veglieranno sul sacro connubio dei due ultimi dilicati rampolli di Sang-Real". Poi pronunciò parole così oscure e così profonde che io non le compresi. "Pensa, Elisenda", soggiunse, "che dal tuo grembo sorgerà la storia dei secoli venturi; dell'alta quercia imperiale, che dilatò le sue ombre fin sull'Asturia e sull'Aragona, due ramoscelli rimangono ancor vivi. Dio unirà questi due ramoscelli che diventeranno una sola ed eterna radice. Da donna Urraca e da Alfonso el Batalador nacque la nostra gloria passata; da donna Elisenda e dal principe Estebano de Sang-Real sorgeranno le nostre glorie future. Bimbi leggiadri ed augusti, siete fiorellini di re, siete semi di re! e come da una sol'ape coronata pullula l'intera popolazione degli alveoli armoniosi, così popola tu, figliuola, gli alti troni del mondo! Estebano, Elisenda: amate, germinate! Offro a Dio in olocausto questi lunghi

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