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le travi del soffitto. Lacey contorse il viso in una smorfia.

      “There’ll be bluebirds over – ironia vuole, ovviamente, che gli uccelli azzurri non siano originari dell’Inghilterra”, aggiunse frettolosamente, prima di lanciarsi nel verso successivo della canzone, “– the white cliffs of Dover.” Riprese poi il discorso: “La devi conoscere questa canzone! È un vecchio classico dei tempi della guerra.”

      “Conosco la canzone,” disse Lacey. Poi schioccò le dita. “La foto in bianco e nero della cantante con il vecchio microfono!” Fece scorrere le immagini sul telefono e la mostrò a Gina.

      “Oh sì! Questa è Vera Lynn, giusto,” confermò la donna annuendo.

      Gli uccelli azzurri. Le scogliere. L’imperatore romano.

      “Tom mi porterà a Dover,” disse Lacey con grande meraviglia.

      “Che affascinante,” commentò Gina, dandole una giocosa gomitata nelle costole.

      Lacey si sentiva tutto il corpo pervaso da un brivido di emozione. Era già stata di per sé contenta di quella romantica fuga segreta. Poi Tom aveva iniziano a imboccarla con dei piccoli indizi sulla loro meta e il suo entusiasmo era man mano cresciuto. Ora che aveva scoperto dove sarebbero effettivamente andati, era davvero deliziata.

      Gli mandò rapidamente un messaggio: “Ho capito!” e guardò attraverso la vetrina del negozio, verso la sua pasticceria dall’altra parte della strada, vedendolo prendere il telefono e iniziare a ridere.

      Ma proprio mentre Lacey stava guardando il suo innamorato attraverso la finestra, una figura si portò improvvisamente davanti a lei, rovinandole la visuale. Quando si rese conto di chi la stava fissando, l’eccitazione che aveva provato solo pochi istanti prima la abbandonò in un colpo solo, come una candela improvvisamente spenta da una folata d’aria. L’emozione fu sostituita invece da un inquietante sensazione di timore. Taryn.

      La proprietaria della boutique della porta accanto era sempre pronta a impicciarsi nella vita di Lacey, nel tentativo di farla andare via dalla città. Perché avesse un tale senso di astio nei suoi confronti, Lacey non l’aveva mai capito del tutto, a parte l’ovvio fatto che la donna era uscita con Tom per un breve periodo diversi mesi prima. Era molto probabile però che fosse gelosa del suo successo, o che nutrisse dei forti pregiudizi nei confronti di un’americana che secondo lei andava a rovinare la loro via principale, altrimenti perfettamente britannica. Probabilmente erano un po’ tutte quelle motivazioni messe insieme.

      Il campanello del negozio suonò con forza mentre Taryn entrava in fretta e furia e attraversava il pavimento di legno con i suoi tacchi a spillo neri e il suo solito tubino addosso. Le sue spalle spigolose e ossute erano scoperte.

      “Oh, guarda, ci sono i Grim Reaper,” mormorò Gina sottovoce, mentre tutte e due guardavano Taryn che si teneva a debita distanza dalla loro collezione di brutte marionette, facendo una faccia disgustata e quasi calpestando Chester, il cane. Il pastore inglese mugolò contrariato per essere stato improvvisamente ridestato dal suo torpore. Poi riabbassò il muso a terra e se lo coprì con le zampe anteriori, cosa che avrebbe fatto molto volentieri anche Lacey, se le convenzioni sociali lo permettessero.

      La donna, totalmente accigliata, si fermò bruscamente di fronte a Lacey e Gina.

      “Come posso aiutarti, Taryn?” chiese Lacey con voce sommessa e in nervosa attesa.

      “Sei consapevole del fatto,” iniziò Taryn con arroganza, “che un PICCIONE ha fatto il NIDO sopra alla tua porta? Il suo costante cinguettio mi sta facendo impazzire! Devi chiamare la disinfestazione. SUBITO.”

      “Prima cosa, non è un piccione,” ribatté Lacey.

      “Si chiama Martina,” aggiunse Gina con tono di scherno.

      Lo sguardo di pietra di Taryn si spostò da una donna all’altra. Incrociò le braccia. “Avete dato un nome a un piccione?”

      “Te l’ho detto,” disse Lacey. “Non è un piccione. È un balestruccio.”

      “E Martina è un nome perfetto per un balestruccio,” disse Gina, offrendo il suo pieno supporto a Lacey.

      “Ha fatto tutto il tragitto in volo dall’Africa per venire a crescere i suoi piccolo sopra la porta del mio negozio,” aggiunse Lacey.

      “E siamo entrambe onorate di averla qui,” concluse Gina, terminando così la loro performance a due.

      Lacey faceva fatica a trattenere le risate.

      Taryn sembrava furiosa. Le sue narici erano dilatate. “Se non ve ne sbarazzate, la disinfestazione la chiamo io,” minacciò a denti stretti.

      Gina ridacchiò. “Non penso che troverai niente di utile al riguardo, mia cara. Nessuno sarà disposto a rimuovere un nido durante il periodo della cova!”

      Sembrava che a Taryn stessero per esplodere le vene in corpo. “E quando finisce questo periodo della cova?” chiese a denti stretti.

      “Novembre, suppergiù,” disse Gina.

      Taryn serro la mandibola con furia. “Tipico!” tuonò, prima di ruotare sui tacchi e partire, andando a sbattere contro le marionette. Lanciò un urlo e se le sbatté via dalla faccia. Con un’ultima occhiataccia verso Lacey e Gina, uscì di gran carriera da dove era venuta.

      Nel momento in cui se ne fu andata, Lacey e Gina scoppiarono a ridere. Lacey rise così forte che le lacrime le scorrevano lungo le guance.

      “Non c’è mai un momento di tregua,” disse, asciugandosi gli occhi. Ma poi esitò. “Aspetta un minuto. Chester non ha ringhiato a Taryn.”

      Normalmente, il suo pastore inglese emetteva un sommesso brontolio per tutto il tempo che Taryn era in sua presenza. Dato che le era arrivato insieme al negozio, a dire il vero conosceva Taryn da molto prima di lei, e tra i due c’era ancora più astio che tra lei e la donna! Chester trattava Taryn come se fosse la sua versione di Crudelia de Mon.

      “Forse adesso non gli dà più fastidio?” suggerì Gina, passandosi la manica sotto agli occhiali rossi fiammeggianti per asciugarsi a sua volta le lacrime.

      Lacey non era convinta. “Ne dubito fortemente. Cioè, lo ha praticamente quasi pestato! No, c’è dell’altro.”

      Si avvicinò velocemente a Chester e gli spostò delicatamente le zampe da sopra la testa. Lui parve notarlo appena, quindi Lacey gli sollevò il muso, tenendogli una mano sotto al mento. Era pesante, come se il cane fosse troppo debole per tenersi su da sé. Quando lo guardò negli occhi, Lacey vide che li aveva umidi e arrossati. Il cane mugolò sommessamente.

      “Oh, tesoro,” gli disse, il cuore che le si fermava quasi nel petto. “Sei malato?”

      Chester gemette come a voler confermare i suoi sospetti e lo stomaco di Lacey si strinse per la preoccupazione.

      “Gina, sarà meglio che lo porti dal veterinario,” disse frettolosamente, voltandosi a guardare l’amica. “Te la cavi da sola con il negozio?”

      “Certo,” disse Gina facendo un gesto di noncuranza con la mano. “Nessun problema, come sempre.”

      Lacey mise il guinzaglio a Chester e lo accompagnò fuori dal negozio, la mente colma di preoccupazione per il suo povero amico peloso ora malato.

      CAPITOLO DUE

      “Chester!” esclamò la donna alla reception.

      Lacey aveva passato un breve ma ansioso periodo d’attesa nella sala d’aspetto del migliore studio veterinario di Wilfordshire, dopo aver percorso a tutta velocità, con la sua malconcia auto di seconda mano, le contorte stradine di acciottolato che vi conducevano.

      Si alzò dalla scomoda sedia di plastica e diede al guinzaglio di Chester una leggera tiratina. Lui sbuffò scocciato – decisamente una cosa non da lui, notò Lacey con ulteriore ansia – e la seguì trascinandosi a fatica nella stanza.

      La veterinaria, Lakshmi, sollevò lo sguardo quando entrarono. Era una donna asiatica di bassa statura, che quasi scompariva nel suo camice verde. I tratti infantili del suo volto la facevano

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