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passato qualcosa del genere da ragazza, anche se era stata molto più giovane, appena sei anni d’età. Xander l’aveva legata in un capanno isolato e l’aveva costretta a guardare mentre torturava e uccideva sua madre, la donna che lui stesso aveva sposato.

      L’esperienza l’aveva segnata per sempre e Jessie era certa che lo stesso valesse per Hannah. Ovviamente, quello che questa ragazza non sapeva, ciò che aveva la benedizione di ignorare, era che Xander era anche suo padre, il che significava che Jessie era sua sorellastra.

      Secondo le autorità, Hannah sapeva di essere stata adottata, ma non aveva idea di quale fosse l’identità dei suoi veri genitori. E dato che Jessie aveva avuto il divieto di incontrarla dopo che avevano condiviso una tale odissea, la ragazza non aveva idea che loro due fossero parenti. Nonostante avesse implorato per poter parlare con la ragazza, promettendo che non avrebbe rivelato nulla riguardo al loro legame, tutti tra le autorità erano stati concordi nel non farle incontrare di nuovo fino a che i medici non avessero ritenuto che Hannah fosse pronta a gestire la cosa.

      Nella sua mente, Jessie comprendeva la decisione e la approvava pure. Ma in qualche punto più profondo della sua coscienza, provava una forte urgenza di parlare con la ragazza. Avevano un sacco di cose in comune. Loro padre era un mostro. Le loro madri erano dei misteri. Hannah non aveva mai incontrato la propria, e quella di Jessie era solo un lontano ricordo. E proprio come Xander aveva ucciso i genitori adottivi di Hannah, lo stesso aveva fatto con quelli di Jessie.

      Nonostante tutto questo, non erano sole. Ciascuna di loro aveva un legame familiare che poteva offrire sollievo e una certa speranza di recupero. Ciascuna di loro aveva una sorella, una cosa che Jessie non aveva mai creduto possibile. Desiderava tantissimo mettersi in contatto con lei e creare un legame con quell’unico elemento ancora vivente appartenente alla sua stessa linea di sangue.

      Eppure, anche se desiderava riunirsi a lei, non poteva che soffermarsi a riflettere.

      Conoscermi potrebbe arrecare a questa ragazza più danno che vantaggio?

      CAPITOLO DUE

      L’uomo era appostato nel corridoio esterno del condominio e si guardava continuamente alle spalle. Era mattina presto e un tizio come lui, grande e grosso come un armadio, afro-americano e con un cappuccino in testa, non poteva che attirare l’attenzione.

      Era all’ottavo piano, subito fuori dall’appartamento della donna che sapeva abitare lì. Conosceva anche la sua auto e l’aveva vista parcheggiata nel garage di sotto, quindi era quasi certo che lei si trovasse in casa. Come precauzione, l’uomo bussò delicatamente alla porta.

      Non erano neanche le sette del mattino, e lui non voleva svegliare prematuramente i vicini inducendoli ad affacciarsi curiosi per vedere cosa stesse succedendo. Era freddo fuori questa mattina e l’uomo non avrebbe voluto levarsi il cappuccio dalla testa. Ma temendo che avrebbe dato troppo nell’occhio, alla fine se lo tirò giù, esponendo la pelle all’aria pungente.

      Non sentendo nessuna risposta al suo bussare, fece un inutile tentativo di aprire la porta, che era certo di trovare chiusa. Lo era. Andò quindi alla finestra accanto. Quella era leggermente aperta. Era dibattuto se provare davvero ad entrare da lì. Dopo un po’ di titubanza, prese la sua decisione, sollevò la finestra e saltò all’interno. Sapeva che chiunque l’avesse visto avrebbe probabilmente chiamato la polizia, ma decise che valeva la pena di correre quel rischio.

      Una volta all’interno, si diresse silenziosamente verso la camera da letto. Tutte le luci erano spente e c’era uno strano odore che lui non riusciva a identificare. Mentre si addentrava di più nell’appartamento, si sentì percorrere da uno strano brivido che non aveva niente a che vedere con la temperatura. Raggiunse la porta della camera da letto, ruotò delicatamente la maniglia e sbirciò all’interno.

      Lì sul letto c’era la donna che si aspettava di vedere. Sembrava dormire, ma c’era qualcosa di strano. Anche alla tenue luce della mattina, la sua pelle appariva stranamente pallida. E poi sembrava del tutto immobile. Il petto non stava salendo e scendendo nel normale movimento indotto dalla respirazione. Niente di niente. L’uomo entrò nella camera e si avvicinò al letto. L’odore ora era fortissimo, un puzzo di marcio che gli fece lacrimare gli occhi e gli rivoltò lo stomaco.

      Avrebbe voluto allungare una mano e toccarla, ma non riuscì a farlo. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non trovò le parole. Alla fine si girò e uscì dalla stanza.

      Tirò fuori il telefono e digitò l’unico numero che gli venisse in mente. Ci furono diversi squilli prima che una voce registrata gli rispondesse. Lui premette diversi pulsanti e aspettò la risposta mentre si ritirava nel salotto dell’appartamento. Alla fine una voce risuonò dall’altro capo della linea.

      “911. Qual è la vostra emergenza?”

      “Sì, mi chiamo Vin Stacey. Penso che la mia amica sia morta. Si chiama Taylor Jansen. Sono venuto a casa sua perché per diversi giorni non sono riuscito a mettermi in contatto con lei. È stesa a letto. Ma non si muove e… non mi pare che sia a posto. E poi c’è puzza.”

      In quel momento la realtà della situazione lo colpì: la vivace e allegra Taylor era morta, lì, a pochi metri da lui. Vin si chinò in avanti e vomitò.

      *

      Jessie sedeva nel sedile posteriore per quella che sperava fosse l’ultima volta. Il veicolo del servizio federale parcheggiò nella struttura del Dipartimento di Polizia di Los Angeles, in un posteggio dedicato ai visitatori. Lì ad attenderla c’era il suo capo, il capitano Roy Decker.

      Non sembrava molto diverso dall’ultima volta che l’aveva visto. Sulla sessantina, anche se sembrava molto più vecchio, Decker era alto e magro, con la testa quasi calva, profonde rughe in volto, un naso adunco e occhi piccoli e penetranti. Stava parlando con un agente in uniforme, ma era evidente che si trovava lì per aspettare lei.

      “Wow,” disse Jessie con tono sarcastico ai federali seduti davanti nell’auto. “Mi sento come una donna nel diciottesimo secolo che viene formalmente ceduta al suo sposo dal padre.”

      Il federale che occupava il posto del passeggero le lanciò un’occhiataccia. Si chiamava Patrick Murphy, anche se tutto lo chiamavano Murph. Basso e tarchiato, con i capelli castano chiaro tagliati corti, emanava una sensibilità pragmatica, anche se nel tempo quell’atteggiamento si era rivelato essere un po’ un suo stratagemma.

      “Un tale scenario richiederebbe un marito intenzionato a prenderti, cosa che trovo piuttosto improbabile,” disse l’uomo che aveva coordinato buona parte della sua sicurezza durante la sua fuga dai due serial killer.

      Un sorriso appena abbozzato che gli incurvava leggermente le labbra lasciava intendere che stava scherzando.

      “Sei sempre un principe tra i principi, Murph.,” disse Jessie con finta gentilezza. “Non so come farò a cavarmela adesso, senza la tua affascinante presenza al mio fianco.”

      “Vale lo stesso per me,” mormorò lui.

      “E lo stesso vale per la tua carismatica loquacità, agente Toomey,” aggiunse Jessie rivolgendosi all’autista, un uomo dalla stazza imponente, con la testa rasata e l’espressione vuota.

      Toomey, che parlava molto raramente, si limitò ad annuire.

      Il capitano Decker, che aveva finito di parlare con l’agente, guardò i tre con impazienza, aspettando che uscissero dall’auto.

      “Immagino che sia giunta l’ora,” disse Jessie aprendo la portiera e uscendo con maggiore energia di quanta ne sentisse in corpo. “Come va, capitano?”

      “Più complicato oggi che ieri,” rispose lui, “ora che ho lei di nuovo fra le mani.”

      “Ma le giuro, capitano, che il nostro Murph qui ha messo da parte un’ottima dote per me. E io prometto che non sarò un peso e che sarò un’ottima mogliettina.”

      “Cosa?” chiese il capitano, perplesso.

      “Oh, papi,” disse rivolgendosi

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