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      Goran Segedinac

      Le Mura di Tarnek

      Traduttore: Jacopo Vigna-Taglianti

      Tektime, 2017.

       PROLOGO

       CAPITOLO PRIMO

       CAPITOLO SECONDO

       CAPITOLO TERZO

       CAPITOLO QUARTO

       CAPITOLO QUINTO

       CAPITOLO SESTO

       CAPITOLO SETTIMO

       CAPITOLO OTTAVO

       CAPITOLO NONO

       CAPITOLO DECIMO

       CAPITOLO UNDICESIMO

       CAPITOLO DODICESIMO

       CAPITOLO TREDICESIMO

       CAPITOLO QUATTORDICESIMO

       CAPITOLO QUINDICESIMO

       CAPITOLO SEDICESIMO

       CAPITOLO DICIASSETTESIMO

       CAPITOLO DICIOTTESIMO

       CAPITOLO DICIANNOVESIMO

       CAPITOLO VENTESIMO

       CAPITOLO VENTUNESIMO

       CAPITOLO VENTIDUESIMO

       CAPITOLO VENTITREESIMO

       CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

       CAPITOLO VENTICINQUESIMO

       EPILOGO

       GLOSSARIO

      PROLOGO

      Tre giustizieri si facevano largo tra la folla, mantenendo con difficoltà la formazione a triangolo regolare ogni volta che un’ondata di persone si abbatteva su di loro. L’intenso sguardo sotto i cappucci dell’uniforme grigio-nera lasciava chiaramente intendere che non si trovavano lì per far compere. Impossibilitati a opporsi all’inerzia, i kasi si scusavano in fretta, abbassando lo sguardo, non appena qualcuno li sfiorava col corpo o si metteva di traverso sul loro cammino. Il primo dei tre, un pelo più corpulento degli altri, con l’estremità di un apparecchio tubolare che premeva loro con forza sul petto, ricordava a quei pochi individui sprovveduti di fare spazio per il passaggio. La loro scorta, senza perdere il passo, si girava all’indietro ogni tot metri e poi, soddisfatta della distanza alla quale lo spazio vuoto che avevano lasciato dietro di sé tornava a essere mercato, procedeva oltre.

      Attraversarono in diagonale l’intera lunghezza della piazza e procedettero oltre, vicino ai pochi fortunati che offrivano la propria merce su banchi improvvisati. Quel che offrivano non era meno sporco di quanto era esposto a terra, ma perlomeno non correva il rischio di essere calpestato. Quando erano quasi arrivati in fondo alla via, si fermarono un istante e poi, come se si fossero accordati in silenzio, s’infilarono in fretta nello stretto spazio tra due banchi, finché il mare ribollente di vita si richiuse dietro di loro. Voci oranti si congiungevano sopra le loro teste, gli sguardi pescavano i bordi delle falde che sparivano, scivolavano e cadevano e, proprio quando sembrava che il senso di ristrettezza sarebbe diventato insopportabile, sbucarono nello spazio aperto di una delle strette strade secondarie. Per qualche minuto camminarono in silenzio tra mucchi di stracci e spazzatura e, quando il chiasso che si erano lasciati alle spalle divenne appena un quieto bisbiglio, il capofila si fermò e imprecò ad alta voce, abbassandosi il cappuccio.

      “Se la prendesse il fuoco, questa lurida gentaglia!”.

      Gli rispose la voce, di gran lunga più misurata, di un suo compagno.

      “I kasi devono fare qualcosa”. Minstrel era noto per la sua pacatezza. In vent’anni che aveva servito l’Ordine, non c’era stata una situazione che gli avesse fatto perdere le staffe. I suoi occhi grigio-argentei fissavano allegri il suo interlocutore.

      “Sembrano ratti, guarda che roba”.

      Tutt’intorno a loro vi erano strati di spazzatura in cui, se si faceva attenzione, si potevano distinguere i rimasugli di cose che si erano guastate o avevano smesso di funzionare prima di essere offerte ai potenziali acquirenti. I mercanti le avevano depositate nelle stradine circostanti e avevano lasciato che si accumulassero, e quelle poche che ancora valevano le avrebbero comprate i mendicanti, gettandole poi dopo che avessero smesso di funzionare del tutto. Se si teneva presente che Piazza dell’Eroina era solo una delle dieci piazze cittadine, non c’era da stupirsi che Tarnek sembrasse un enorme immondezzaio.

      “Le tue stanze non sono poi tanto meglio”, ribatté Minstrel. “Che dici, Gort, il nostro Tesos non è un kas fortunato? Ovunque si trovi, si sente sempre a casa”.

      “Ora basta con le stupidaggini”. Anche se per corporatura non primeggiava sugli altri due, nella voce di Gort si poteva sentire un tono autoritario. “Quanta strada abbiamo fatto?”.

      Tesos sbuffò e guardò il tubo con cui fino a poco prima si era aiutato con successo nel farsi strada, come se si aspettasse che gli avrebbe risposto.

      “Abbastanza”, rispose Minstrel al posto suo. “Abbiamo attraversato tutta la Bocca Rossa, e sulla Via Polverosa ci siamo esibiti in modo abbastanza convincente”.

      “Io le ho date per bene a un tizio”, intervenne Tesos. “Si ricorderà di me per tutto il giorno”.

      “Be’”, continuò, “per quanto mi riguarda, nessuno può darci degli scansafatiche”.

      “Un passo alla volta. Con tutti i problemi che abbiamo, non dobbiamo correre ulteriori rischi. Preferisco agire con cautela piuttosto che fare le cose di fretta come uno stupido”, rispose Gort.

      “E quanti ne hai sistemati tu? O non ci hai fatto attenzione?”, lo punzecchiò Minstrel.

      “Ho visto quel che ci basta da inserire nel resoconto. Dimmi, come risulterebbe il nostro rapporto di servizio serale se nessuno di noi fosse in grado di descrivere qual è la situazione nella nostra zona? O forse pensi che sarebbe furbo inventarcelo come Suvi e il suo plotone?”.

      Minstrel non ribatté. Gort aveva ragione. Il trimestre scorso Suvi aveva ricevuto

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