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bussò a una porta tre volte. Il suono era vuoto e profondo come quello emesso da una grancassa. Anche se non riusciva a vedere, Reid immaginò mentalmente Yuri che batteva con il pugno sulla pesante porta d’acciaio.

      Ca-chunk. Un catenaccio scivolò di lato. Un whoosh, e la porta si aprì accompagnata da una ventata d’aria calda. All’improvviso, un miscuglio di rumori: bicchieri che tintinnavano, liquido che sciabordava, ingranaggi che ronzavano. Strumentazione da vinificatore, a giudicare dal suono. Strano, da fuori non si era sentito niente. Le pareti esterne dell’edificio sono insonorizzate.

      La mano pesante lo spinse all’interno. La porta si chiuse di nuovo e il catenaccio fu rimesso al suo posto. Il pavimento sotto di lui dava la sensazione di un liscio cemento. Le sue scarpe finirono in una piccola pozza. L’odore acetoso della fermentazione era molto forte e appena al di sotto, c’era quello dolce e familiare del succo d’uva. Fanno davvero il vino qui.

      Reid contò i passi sul pavimento dell’impianto. Passarono attraverso una nuova serie di porte, accompagnati da una diversa gamma di rumori. Macchinari: una pressa idraulica. Un martello pneumatico. La catena tintinnante di un nastro trasportatore. L’odore della fermentazione lasciò il posto all’unto e all’olio dei motori, e… Polvere. Producono qualcosa qui, molto probabilmente munizioni. C’era qualcos’altro, un che di familiare, oltre all’olio e alla polvere. Era dolce, come le mandorle…  Dinitrotoluene, Stanno creando degli esplosivi.

      “Scale,” disse la voce di Yuri, vicino al suo orecchio, quando la tibia di Reid andò a sbattere contro il primo gradino. La mano pesante continuò a guidarlo mentre quattro paio di piedi salivano le scale d’acciaio. Tredici gradini. Chiunque abbia costruito questo posto non era superstizioso.

      In cima c’era l’ennesima porta d’acciaio. Una volta che fu chiusa alle loro spalle, il suono dei macchinari fu soffocato—doveva essere un’altra porta insonorizzata. Da vicino si alzava una musica classica, una composizione per pianoforte. Brahms. Variazioni su un tema di Paganini. La melodia non era abbastanza ricca da venire da piano vero, doveva esserci uno stereo.

      “Yuri.” La nuova voce era un severo baritono, lievemente arrochita da troppe grida o troppi sigari. A giudicare dall’odore nella stanza, la colpa era dei sigari. Ma forse di entrambi.

      “Otets,” disse ossequioso Yuri. Parlò rapidamente in russo. Reid fece del suo meglio per seguire, nonostante l’accento di Yuri. “Ti porto buone notizie dalla Francia…”

      “Chi è quest’uomo?” volle sapere il baritono. Dal modo in cui parlava, il russo doveva essere la sua lingua nativa. Reid non poté evitare di chiedersi quale fosse il collegamento tra gli iraniani e quest’uomo russo, e gli scagnozzi nel SUV, già che c’era, e persino il serbo Yuri. Un traffico d’armi, forse, disse la voce nella sua testa. O qualcosa di peggio.

      “Lui è il messaggero degli iraniani,” rispose Yuri. “Ha le informazioni che cerchiamo…”

      “Lo hai portato qui?” lo interruppe l’uomo. La sua voce profonda si alzò in un ruggito. “Saresti dovuto andare in Francia per incontrarti con gli iraniani, non trascinare degli uomini qui da me! Comprometterai tutto con la tua stupidità!” Ci fu un solido schiocco, il rumore di uno schiaffo su un volto, e un ansimo di Yuri. “Devo scrivere il tuo compito su un proiettile, perché ti entri in quella testaccia dura?”

      “Otets, ti prego…” balbettò Yuri.

      “Non chiamarmi così!” gridò furibondo l’uomo. Una pistola fu caricata, un’arma di grosso calibro, dal suono. “Non chiamarmi con nessun nome in presenza di questo sconosciuto!”

      “Non è uno sconosciuto!” strillò Yuri. “Lui è l’Agente Zero! Ti ho portato Kent Steele!”

      CAPITOLO SETTE

      Kent Steele.

      Il silenzio regnò per diversi secondi che sembrarono minuti. Un centinaio di visioni lampeggiarono nella mente di Reid come prodotte da una macchina. La CIA. Servizio nazionale clandestino. Divisione attività speciali. Gruppo operazioni speciali. Operazioni psicologiche.

      Agente Zero.

      Se ti scoprono, sei morto.

      Noi non parliamo. Mai.

      Impossibile.

      Era semplicemente impossibile. Cose come la cancellazione della memoria, gli impianti o le soppressioni erano stranezze da maniaci delle cospirazioni o da film di Hollywood.

      Ormai non aveva più importanza, comunque. Avevano sempre saputo chi era, dal bar al viaggio in auto fino in Belgio, Yuri aveva sempre saputo che Reid non era chi aveva detto di essere. Ora era bendato e intrappolato dietro una porta d’acciaio insieme ad almeno quattro uomini armati. Nessun altro sapeva dove fosse o chi fosse. Un nodo di terrore gli strinse lo stomaco e minacciò di farlo vomitare.

      “No,” disse lentamente la voce baritonale. “No, ti sbagli. Stupido Yuri. Questo non è l’uomo della CIA. Se lo fosse, non sarebbe qui.”

      “A meno che non sia venuto per cercare te!” ribatté Yuri.

      Dita afferrarono la sua benda e la tirarono via. Reid strinse gli occhi contro l’improvviso attacco delle luci fluorescenti. Sbatté le palpebre davanti a un uomo sulla cinquantina, con capelli brizzolati, una barba folta tagliata corta e uno sguardo acuto e intenso. L’uomo, presumibilmente Otets, indossava un elegante abito color carbone e portava i primi due bottoni della camicia aperti, sotto i quali spuntavano i peli del petto ricci e grigi. Si trovavano in un ufficio dalle pareti dipinte di rosso scuro e adornate da dipinti sgargianti.

      “Tu,” disse l’uomo in un inglese fortemente accentato. “Chi sei tu?”

      Reid prese un respiro tremante e lottò contro la tentazione di dire all’uomo che ormai non lo sapeva più. Invece, con voce incerta rispose: “Mi chiamo Ben. Sono un messaggero. Lavoro con gli iraniani.”

      Yuri, che era in ginocchio dietro Otets, saltò in piedi. “Mente!” strillò il serbo. “Io so che mente! Dice che gli iraniani lo hanno mandato, ma non si fiderebbero mai di un americano!” Fece una smorfia. Dall’angolo della sua bocca spuntava un sottile rivolo di sangue, dove Otets lo aveva colpito. “Ma so dell’altro. Vedo, ti ho chiesto di Amad.” Scosse la testa e mostrò i denti. “Non c’è nessun Amad tra di loro.”

      A Reid continuava a sembrare strano che quegli uomini sembrassero conoscere gli iraniani, ma non con chi lavorassero, né chi avrebbero mandato. Erano collegati in qualche modo, ma non gli era chiare quale fosse questo collegamento.

      Otets borbottò imprecazioni russe sotto voce. Poi in inglese disse: “Hai detto a Yuri che sei un messaggero. Yuri dice che sei l’uomo della CIA. Chi devo credere? Di certo tu non somigli a come pensavo fosse Zero. E il mio galoppino idiota ha ragione su una cosa: gli iraniani detestano gli americani. Non ti vedo bene. Tu dimmi la verità, o io ti sparo in un ginocchio.” Sollevò la pesante pistola, una Desert Eagle serie TIG.

      Reid rimase senza fiato per un momento. Era una pistola molto grossa.

      Lasciati andare, lo sospinse la sua mente.

      Non sapeva come fare. Non sapeva cosa sarebbe successo se lo avesse fatto. L’ultima volta che quegli istinti avevano preso il sopravvento, quattro uomini erano morti e lui si era ritrovato con le mani letteralmente sporche di sangue. Ma non c’era altro modo in cui potesse uscirne vivo, o meglio, il professor Reid Lawson potesse uscirne vivo. Ma Kent Steele, chiunque egli fosse, forse poteva farcela. Magari non sapeva chi fosse, ma non avrebbe avuto importanza se non fosse sopravvissuto tanto a lungo da scoprirlo.

      Reid chiuse gli occhi. Annuì una volta, un tacito consenso alla voce nella sua testa. Lasciò cadere le spalle e le sue dita smisero di tremare.

      “Sto aspettando,” disse seccamente Otets.

      “Non vuoi spararmi,” replicò Reid. Fu sorpreso di sentire la propria voce tanto calma e rilassata. “Uno sparo a bruciapelo da quella pistola non mi distruggerebbe il ginocchio. Mi staccherebbe una gamba e io morirei

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