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Oramai quello che s'era voluto fare s'era fatto e nessuno sperava certo di allungare Broadway fino al Pacifico. – La spuntò l'arcivescovo e per lo spazio di qualche mese, la bella chiesa che fu dedicata a San Patrizio, respirò l'aria aperta dei campi. Ma il pieno sole non le durò gran tempo. Essa sta ora nel mezzo dei più eleganti quartieri e due terzi circa della città, si stendono oltre le sue, ancor nuove, pareti.

      D'allora in poi New-York ha fatto giudizio, ha imparato a conoscersi, o se pecca, è piuttosto di troppa, che di poca fede nei propri destini. Oramai stimolata dalla gelosia verso la più giovane Chicago, essa guarda ai villaggi che ancora le distano dieci, dodici, quindici chilometri, come a preda dovuta e sicura. E più guardano questi ad essa impazienti di farsi inghiottire. Quel ramo dell'Hudson chiamato Harlem-river che segnava due o tre anni or sono l'estremo confine del suburbio, vedrà sul principiare del secolo venturo una maggiore distesa di fabbriche a monte che a valle del suo corso. Le sue rive hanno ora il pittorico aspetto dei luoghi subitamente assaliti dalla febbre novatrice, che mostrano violenti contrasti fra il ieri già decrepito e il domani già quasi attuato. Il presente non vi ha nessun aspetto stabile. O luridi tuguri extraurbani, che minacciati dalla città galoppante incontro ad essi e predestinati al piccone demolitore, nessuno curò più di restaurare e di abbellire, o immensi castelli di travi che mal nascondono gli imminenti palazzi! La città smaniosa di piantare i segni delle sue conquiste scava entro i colli granitici le vie dei futuri quartieri e le conduce tosto a finimento. Incise fra enormi dadi di macigno levigati sui fianchi ed ancora coronati, al sommo, d'erbe selvagge, quelle vie già lastricate e scavato nelle lastre di gorello dell'acqua e sagomato il rialzo del marciapiede, lungo il quale già si allineano i fanali, fanno una veduta curiosa che ha insieme del fantastico e del puerile. La fervida fantasia industriale ha già segnato alla nuova città le plaghe, dove inerpicarsi su per i colli e quelle dove spianarsi ad agevolezza di traffichi. Là rimpolpa le chine di terra vegetale, alimento ai futuri giardini, qui, squarcia e rade le rupi. Così la città promessa si dispone in svariate prospettive e s'incorpora lembi di schietto paesaggio. Già l'attuale comprende nei suoi quartieri centrali vaste regioni boschive e sistemi di colli, fra i quali corre bensì un sapiente intreccio di strade, ma che pur serbano la sincerità dell'aperta campagna. – Il pomeriggio del sabato (poichè la settimana operosa termina in America il sabato al mezzodì) New-York si riversa nel Central-Park e ne invade con domestica padronanza ogni recesso. Ma la folla non vi ha l'aria colleggiale e domenicale della nostra, costretta dalla tirannide edilizia a procedere in processione lungo i viali. Il parco appartiene veramente in ogni sua parte ai cittadini, i quali ne prendono un possesso corporeo, non visivo soltanto come noi facciamo. Numerose brigate, bei fiori di ragazze e di giovani, si spandono nelle distese erbose, franche d'ogni vigilanza e vi giuocano a corsa, al salto, alla palla, ai birilli. – Presso di noi quei giuochi vogliono recinti privilegiati; là si fanno all'aperto con libero diletto degli attori e degli spettatori. Quelli vi cercano, nell'esercizio muscolare uno svago ed un sollievo alle cure ed alla concentrazione cerebrale indotta dagli affari; questi ne traggono l'orgogliosa coscienza nelle energie fisiche onde il sangue americano prevale sull'europeo, ed un compiacimento estetico che noi, per secolare abitudine, siamo avvezzi a domandare soltanto ai prodotti dell'arte.

      Fino a pochi anni addietro, l'America tutta intesa alla conquista delle proprie terre, parve riconoscere alle vecchie società europee il privilegio della bellezza, e da queste prese a modello in ogni ramo dell'arte, le forme consacrate dai secoli. Conscia ora della sua integrità e della sua individualità, essa va rapidamente accogliendo e maturando una sua particolare idea del bello che, non disturbata da preconcetti storici e da tradizionali riverenze, ricava dalla osservazione diretta anzi dalla diretta fruizione della vita! La sua è si può dire una estetica sociale, cioè non disgiunta mai dalle applicazioni al benessere e confacente allo sviluppo progressivo della razza umana.

      Presso il popolo americano, l'idea della bellezza è più associata all'esercizio ed ai movimenti della vita che alla immobilità dell'opera d'arte. Esso preferisce vedere bella gente e gagliarda nelle vie delle città, che bei monumenti nelle piazze e bei quadri nelle pinacoteche ed in generale stima che l'idea del bello si rinnovi e rimuti di continuo, a seconda che si rinnovano e rimutano gli aspetti ed i moti della vita. – Perciò l'estetica degli americani, più mutabile e progressiva della nostra e meno ombrosa e tirannica, non contrasta mai lo sviluppo delle attività meccaniche onde escono gli agi ed è centuplicato il godimento dei beni terreni, ma si va ad esso continuamente conformando.

      All'artista europeo, quando egli è dimorato alcun tempo negli Stati Uniti, avviene spesso di provare un senso indefinibile di disagio intellettuale che egli non sa sulle prime a che attribuire. Egli osserva, nota, raccoglie una somma insperata di sensazioni che possono divenire sostanza d'arte, ma in pari tempo avverte che qualche cosa manca a quel complesso poderoso di cose, di fatti, di moti, di espressioni della vita. E per poco ch'egli rifletta e si abbandoni nelle ore crepuscolari alle care immagini patrie, s'accorge che un elemento imponderabile manca: la testimonianza del passato. Manca la storia, mancano i segni della storia, manca la profonda vibrazione ideale ond'è accresciuta la bellezza delle cose belle, mancano le immagini e le voci dei secoli morti.

      Gli americani nella baldanza della loro gioventù non sanno dolersi di tale lacuna. Essi in argomento d'arte, deridono alquanto la nostra estetica legittimista e si compiacciono d'esserne affrancati. Il difetto di tradizioni, essi dicono, li salva dalle timidità rispettose e li aiuta a conseguire la personalità. E in argomento di costituzione sociale e di condotta politica, essi, non senza ragione, osservano che ai popoli d'Europa la memoria delle grandezze passate è cagione di errori, di vanità, d'ingiustizie, di prepotenze, di miserie; di eccidi presenti. Hanno ragione? Hanno torto? Chi lo può dire? E che giova cercarlo? Nessuna forza umana potrà far mai che quello che fu non sia stato, ed essi vanno ora edificando storia e tradizioni ai loro nepoti.

      Certo a noi il noblesse oblige fu spesso causa nella vita privata e nella pubblica, di commettere azioni a criterio morale disoneste, a criterio politico pazze e crudeli, a criterio sociale o ingiuste o ritardatrici di giustizia. Ma eliminato il pregiudizio, ma vinta la vanità, ma fatto ragionevole l'ossequio, ma francate dall'ossequio le attività creatrici, chi vorrebbe soffocare le larghe pulsazioni della vita umana considerata nella continuità dei secoli? Certo la intemperanza estetica degli americani e la loro incontinenza nella fruizione della ricchezza, conseguono in molta parte dal silenzio del loro passato e dallo scarso loro patrimonio ideale. Nessun tesoro di miliardari può dare le gioie incontrastabili che proviamo passeggiando per una chiara notte sulla piazzetta di San Marco e rievocando dal palazzo dei Dogi i fantasimi della storia.

      Ma quel difetto di storia, che a molti spiriti delicati d'Europa renderebbero quasi insopportabile il soggiorno del nuovo mondo, gli americani non lo possono nè lamentare nè avvertire. Essi stanno, rispetto a noi, come un uomo che non ama rispetto ad uno innamorato. A quello non par possibile che un essere ragionevole smarrisca la nozione della vita presente e delle cose che lo circondano, ed il senso dell'utile per i begli occhi di una donna che lo lasciano lui, freddo ed indifferente. A questi non par possibile che altri possa vivere senza amare e senza amare quella per l'appunto che a lui solo par donna. Noi siamo, rispetto all'arte degli americani, e parlo qui in modo speciale dell'architettura perchè è la sola dove essi abbiano conseguito una vera personalità, nelle identiche condizioni in cui si trovava il Vasari rispetto all'arte gotica; il quale ne chiamava maledizione di fabbriche, i prodotti. Diciamo subito che i nuovi saggi architettonici d'oltre oceano, non incontrano neanche in America la generale approvazione, e neanche quella del maggior numero. Ma i dubbiosi ed i dissenzienti, non condannano: stanno a vedere, persuasi che ai primi informi tentativi seguiranno vere e sicure opere d'arte originali e pratiche. A noi europei quelle moli scomposte danno un senso di apprensione e di inquietudine, senza indurci nello sgomento estetico e grandioso. L'immenso fabbricato dell'Auditorium di Chicago, dove c'è un albergo per un migliaio di avventori, una quantità grande di banche e di scrittoi d'ogni maniera, il Conservatorio di musica e, non ricordo se al sesto o al settimo piano un teatro capace di ottomila persone, fa più meraviglia a sentirne enunciata la capacità che a vederlo. La sua vastità manca di grandezza. La vastità non è e non può essere elemento d'arte. Lo è la grandezza che risulta dalla coordinazione delle parti. Può riuscire cento volte più grandioso un edificio cento volte più piccolo.

      New-York non accolse ancora quelle babeliche moli che in Chicago assaltano

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