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folio e d’enciclopedie: tra queste mura sorde a ogni voce impulsiva e pur così impregnate de’ pettegolezzi, delle invidie e delle guerricciuole che costituiscono il tessuto connettivo della vita degl’impiegati, il continuo esercizio della loro parola aspra e mordace, l’alimentazione quotidiana dell’ozio e dell’ignoranza del loro pensiero!

      Che diamine, dunque, pretendeva di non volere lasciare qui, come un brano del suo cuore dolente, il mio compagno de Laurenzi? E di dove gli veniva tutto questo attaccamento atavo-topografico, espresso con tanto impeto melodrammatico? Io non sapevo, in verità, figurarmi e ammettere tra il baccalà alla livornese e l’evocazione paterna alcuna tollerabile analogia. Quest’uomo dunque componeva con tanta assoluta ignoranza della loro espressione dissimile le sensazioni della psiche e la più brutale delle soddisfazioni fisiologiche?

      – Comprenderai – disse lui, quasi come per rispondere al mio pensiero, e dopo aver vuotato il suo terzo bicchiere di vino bianco siciliano – comprenderai ch’io mi trovo nelle biblioteche non per le mie aspirazioni, non per elezione mia. Ti pare? Un impiego governativo! Cioè una sgobbatura! Una servitù! Ma, poi che là dentro mio padre, ch’era uno studioso, è stato impiegato anche lui e ha vissuto metà della sua vita io vi ho voluto iniziare come una tradizione metodica ed esemplare nella storia di queste successioni familiari. Usciamo?

      – Usciamo. Bada ch’è ora di tornare lassù.

      De Laurenzi afferrò un tovagliolo e si forbì le labbra, in fretta, e poi lo buttò sulla tavola tutto insudiciato, come uno straccio. Si levò: cacciò la mano nella profondità d’una delle saccocce del suo cappotto, vi pescò e ripescò per buon tratto, e infine cavò fuori quell’artiglio armato d’un mozzicone di sigaro.

      – Andiamo – mi fece, dopo avere acceso il mozzicone.

      Sulla soglia della trattoria s’arrestò, per ricominciare il discorso.

      – E così eccomi in guerra aperta col signor direttore. Si capisce: io sono uno straordinario, pel momento: io sono entrato nel sancta sanctorum senza i titoli che ci vogliono. Titoli? E il mio ingegno, il mio passato? Questi signori non vedono che bibliografia, schedatura, inventarii. E guai a chi è qualcuno o qualcosa! E poi sotterfugi, rapporti segreti, denunzie: ecco la loro maniera di battagliare. Ora, come l’hanno insegnato anche a me, loro mandano ufficii – e io mi dò per malato e vado a Roma.

      Si scappellò, con un saluto profondo.

      Colui ch’egli aveva salutato gli fece pur di cappello e passò via, in mezzo a quattro o cinque altri che lo accompagnavano e con cui discuteva calorosamente.

      – Lupus in fabula– disse de Laurenzi – L’onorevole Maliberti. Non lo conosci?

      – No.

      – Vuoi che ti presenti, un’altra volta?

      – Ma no!..

      – Fai male. Una potenza, sai. È lui che m’ha presentato al ministro. Ed è così che sono a posto, adesso.

      Riaccese il suo mozzicone di sigaro, che s’era spento. E soggiunse:

      – Vedrai, mio caro. S’è battagliato, a Roma, giorni addietro. Ma l’ho spuntata, questa volta. Francamente, se io fossi te, cercherei di conoscere l’onorevole. Non sei elettore, tu? No? Come, non sei elettore, non ti sei fatto inscrivere?..

      Affrettavo il passo. Egli s’accorse della poca attenzione onde accoglievo le sue parole e s’arrestò, a un tratto.

      – Tu dunque rientri in ufficio?

      – E tu non ci vieni?

      – Io no. Vado al giornale. Ho un articolo da correggere in bozze di stampa. E mi preme più quello, naturalmente.

      Feci l’atto di rincamminarmi.

      – Se domandano di me…

      – Ho capito…

      – Ecco… Si potrebbe inventare una frottola. Un figlio malato, per esempio. L’influenza. Si può dire che mi sono venuti a chiamare da casa mia, d’urgenza. Una malattia a tua scelta. E poi mi telefoni al giornale. D’accordo?

      – Sì – mormorai – d’accordo.

      Egli s’era già allontanato, a gran passi, trascinando pel fango di via Costantinopoli le sue scarpacce inzaccherate sulle quali sbattevano, molli e intrise di mota, le bocche larghe e logore de’ suoi pantaloni.

      Ora passava un carro funebre, di quelli che fanno continuamente la via di Foria e s’avviano al cimitero. Il de Laurenzi, curvo, con la mano alla falda del cappello, scivolò accanto all’enorme e nero carrozzone dalla cui cimasa dorata pareva che volessero spiccare il volo, ad ali spiegate, quattro polisarcici angioli di legno. La via, su quel transito, s’era fatta silenziosa, a un tratto. E a me parve che tanto da quel lento carro come da quell’uomo pur funebre si sprigionasse in quel punto una medesima espressione mortuaria il cui senso mi durò dentro per qualche secondo. Poi tutto si tolse dalla mia vista. Ma sopra di me e sull’animo mio, mentre m’avviavo alla porta del mio ufficio, pesava ancora, come l’ultimo segno di tanta malinconia, un cielo invernale plumbeo e greve. L’aria mi pareva satura d’una umidità uggiosa, e associata a tutta quella tristezza, a tutta quella miseria.

      – Spero che non mi chieggano di costui! – m’auguravo, salendo le scale della biblioteca.

      Come mi seccava di dover mentire, se mai! Una collera sorda, commista d’insofferenza e di sprezzo, mi sommoveva contro quest’uomo che intendeva piegarmi a una ripugnante complicità. Lui tenero dell’ufficio, della stanza paterna, della vita di quel luogo severo e nobile – lui, così svogliato, così cinico, così pronto a barattare la sua dignità e il suo amor proprio con una menzogna da scolare?

      Un uomo di quasi sessant’anni!

      II

      – Stazza l’aspetta – mi disse l’usciere di guardia alla porta, come mi vide – Ha domandato di lei più volte.

      – Stazza? E che vuole? Dov’è?

      – Nella stanza del direttore.

      Era uno degl’impiegati più anziani, un uomo eccellente, nel cui bonario sorriso io m’abbattevo ogni mattina, da quattro o cinque anni che frequentavo l’ufficio: il solo sincero sorriso che ritrovassi là dentro. Nella biblioteca Stazza era entrato a trent’anni; ora ne aveva sessantacinque suonati. Era ancora un colosso: nelle sue larghe mani poderose s’ammucchiavano pile enormi di libri, ed egli le reggeva e le portava qua e là senza alcuno sforzo visibile, con le braccia tese, lento, paziente, tranquillo. E come la pratica scienza del luogo ove quasi aveva vissuto tutta la sua vita ve lo ritrovava acconcio e disposto alle fatiche più improbe, egli non se ne stancava. Si conosceva illetterato, sapeva la insufficienza della sua cultura, meno che mediocre e null’affatto accresciuta neppure dalle più immediate e continue comunioni co’ sapienti compagni locali e con i lettori – e però badava, offerendo e adoperando come un valore succedaneo la forza delle sue membra poderose, a compensare questa sua grande pochezza spirituale.

      Di volta in volta, quando per cercare qualche libro mi capitava di entrare nella sua stanza – ov’egli non s’era fatto portare che una delle più vecchie e più umili scrivanie e due seggiole, una delle quali per riporvi il cappello – la bonaria semplicità di quell’uomo mi vi tratteneva per un pezzo. Era la mezz’ora in cui Stazza si concedeva un breve riposo. Facevamo quattro chiacchiere: io addossato a uno scaffale, con tra le mani il libro che mi occorreva, lui seduto alla sua scrivania, coi gomiti sulla tavola.

      Una volta, non so come, non ricordo più perchè, gli chiesi, sorridendo:

      – E lei crede che si possa aver passione per la biblioteca, noialtri?

      Stazza, serio, socchiuse gli occhi, con quel suo solito vezzo di quando voleva dir cose gravi.

      – Si possa? Si deve, caro collega. Guardi, io non ho moglie, non genitori, non fratelli. E per me la biblioteca è la moglie, è la madre, qualcosa come una famiglia. Penso, talvolta, che avrei avuto quasi il diritto di nascere qui, in una di queste stanze. Lei ride?

      – No,

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