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si trovavano? Dove il vento e le correnti avevano spinto la zattera? Era vicina o lontana quell’isola che nascondeva il tesoro della Montagna Azzurra? Inutilmente avevano rivolto domande su domande al capitano per sapere almeno su quale rotta navigavano. Il disgraziato, messo alle strette, aveva dovuto confessare che il cronometro durante il trasporto aveva subito un guasto. Quella notizia aveva prodotto un maggiore scoraggiamento fra i naufraghi dell’Andalusia. Guai, se avessero saputo che un miserabile che si trovava fra di loro era stato l’autore di quell’infamia e fossero riusciti a scoprirlo! Fortunatamente il capitano, che sperava di poterlo sorprendere, si era ben guardato dal comunicare loro il suo segreto. La notte del terzo giorno, dopo la cattura dei pesci-volanti, avvenne un fatto che produsse una enorme impressione nell’animo di don Josè, don Pedro e del bosmano. Tutta la notte la zattera era rimasta immobile, appena mossa dal cambiamento del flusso, non avendo soffiato il menomo alito di vento. Verso l’alba il bosmano, a cui era toccato l’ultimo turno di guardia, si era recato a prora con la speranza di scoprire le montagne dell’isola, quando la sua attenzione fu attirata da un pezzo di sughero simile a quelli che usano i pescatori per le loro lenze, galleggiante a qualche metro dalla zattera. Molto sorpreso per quel fatto inaspettato, non avendo mai visto di quei sugheri a bordo dell’Andalusia, senza dire nulla ai suoi camerati che stavano raccolti a poppa, presso il timone, aveva preso un lungo remo e maneggiandolo cautamente era riuscito a impadronirsi del minuscolo gavitello. Non poteva essere la doga di un baleniere, con le cifre e il nome della nave, in quanto quegli arditi pescatori usano delle tavolette di sughero di dimensioni maggiori. Il vecchio marinaio che aveva fatto nella sua gioventù più di una campagna con i balenieri nordamericani della California e dell’Oregon non poteva ingannarsi. Nascose rapidamente il piccolo gavitello sotto la casacca, temendo di essere scorto dai suoi camerati, e si diresse sollecitamente verso la piccola tenda per avvertire il capitano di quella straordinaria scoperta, che poteva annunciare la vicinanza di qualche nave pescatrice di trepang. Bastò una sola scossa per far balzare in piedi don Josè, il quale aspettandosi di momento in momento qualche notizia, dormiva con un occhio solo.

      – La costa? – chiese, vedendosi davanti il bosmano.

      – Non ancora, comandante, per nostra disgrazia, – rispose Reton. – Comincio però a sperare che non sia molto lontana… Guardate che cosa ho raccolto poco fa.

      Il capitano afferrò la tavoletta di sughero, guardandola attentamente da una parte e dell’altra. A un tratto un grido li sfuggì dalle labbra e così alto da svegliare anche don Pedro e Mina.

      – Che cosa succede, comandante? – chiese il giovane alzandosi prontamente – È forse in vista la Nuova Caledonia?

      – Ancora un tradimento, – rispose don Josè, che appariva in preda a una grande agitazione.

      Il bosmano imprecando, si batteva la testa con i pugni poderosi.

      – Che cosa dite, capitano? – chiese poi con ansia.

      – Che quel traditore continua la sua opera infame.

      – Quel pezzo di sughero…

      – È un segnale affidato alle onde e alle correnti.

      – A quale scopo? – domandò don Pedro.

      – Guardate anche voi dunque, – rispose il capitano che sembrava dovesse scoppiare dalla collera.

      Don Pedro, a sua volta, si impadronì del sughero e poté distinguere tre strani geroglifici sormontati da un uccello, una specie di colombo, probabilmente un notù, incisi con qualche chiodo o con la punta di un coltello.

      – Il segnale misterioso del documento! – esclamò.

      – Guardate più sotto, don Pedro.

      – Vedo un A

      – Che vorrà significare Andalusia, suppongo, – disse il capitano.

      – E che cosa volete concludere? – chiese Mina.

      Il capitano stette un momento raccolto, poi chiese a don Pedro:

      – Voi non avete mostrato a nessuno quel pezzo di corteccia di niauli?

      – No, capitano.

      – Ne siete ben certo?

      – L’ho sempre tenuto nascosto sotto la mia camicia, dopo il naufragio dell’Andalusia.

      – E prima?

      – L’ho tenuto nella mia cassetta, chiusa a doppio giro di chiave.

      – Come può allora uno dei nostri marinai conoscere il segreto? – si chiese don Josè. – Ecco un mistero assolutamente inesplicabile.

      – E che cosa volete concludere? – chiese per la seconda volta Mina.

      – Che qui sotto c’è la mano del capitano Ramirez, – rispose don Josè. – Quel miserabile deve aver corrotto qualcuno dei miei uomini. Quella doga è un segnale affidato alle onde e probabilmente non sarà stato il solo. Chissà quanti ne sono stati gettati dal traditore, a nostra insaputa con la speranza che qualcuno venga raccolto dall’equipaggio dell’Esmeralda… Tu Reton, hai mai veduto di questi sugheri a bordo dell’Andalusia?

      – Mai, – rispose il bosmano. – Solo i pescatori ne usano e noi avevamo ben altro da fare che prendere pesci.

      – Ah! – esclamò in quel momento don Pedro che continuava ad osservare la doga. – Ci sono dei segni anche sui margini.

      – Quali segni?

      – Sette punti e quattro lineette, più cinque numeri: un due, un dieci e un ventiquattro.

      – Dei segni convenzionali che avranno il loro significato, – disse il capitano, dopo averli osservati. – Canaglie!

      – Voi dunque credete, capitano, che questo sughero sia stato lanciato per segnalare qualche cosa a quel bandito di Ramirez? – chiese il bosmano.

      – Solo quel furfante possiede una copia del talismano che ci permetterà di farci consegnare dai krahoa il tesoro raccolto da don Belgrano.

      – È vero! – esclamò don Pedro. – E come dovremo regolarci ora?

      – Non ci rimane che di raddoppiare la sorveglianza per sorprendere quel traditore, – disse il capitano.

      – Ah, se potessi mettergli le mani addosso! – borbottò Reton, digrignando i denti. – Che bella colazione per il pescecane che si nasconde sotto la zattera!

      A un tratto si batté la fronte, poi disse:

      – Tò… Una sera ho visto Emanuel gettare un pezzo di sughero, per attirare i pesci, come mi disse.

      – Vorresti incolpare quel ragazzo? – chiese il capitano, alzando le spalle. – Tu hai la mania di vedere sempre un nemico in quel povero diavolo. Chi ha gettato questo non può essere che un marinaio e molto furbo. Conserviamo il segreto e non dite nulla a nessuno. Non bisogna insospettire il traditore.

      – E occhi aperti, aggiunse il bosmano. – Invece di quattro farò otto ore di guardia notturna.

      Uscirono tutti insieme, simulando un’aria tranquilla e si spinsero verso prora per osservare l’orizzonte. Quasi tutti i marinai vi si erano già radunati, spingendo lontano, su quella sterminata pianura liquida, di un bell’azzurro profondo costellato di scintillii d’oro, il loro sguardo acutissimo. Nulla: sempre nulla. L’orizzonte era purissimo, senza la più piccola nube e senza il profilo di una montagna. Una calma immensa regnava sul Pacifico.

      – Si direbbe che siamo maledetti – disse il capitano, dopo aver guardato in tutte le direzioni. – Anche il vento congiura contro di noi. A questa calma preferirei la tempesta, qualunque cosa dovesse succedere.

      Alla notte il capitano, don Pedro e il bosmano raddoppiarono la sorveglianza ma non notarono nulla di insolito. I marinai, stanchi, affamati e assetati, poiché il previdente capitano continuava a diminuire le razioni, non avevano lasciati i loro posti, anzi non avevano smesso di russare, essendosi tutti rifiutati di fare i loro turni, giudicandoli inutili. Nessuno aveva fiducia nell’incontro di una nave, trovandosi

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