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ci si mette!

      –Non ci credete veh! alla mamma. Dice così per farmi arrabbiare.

      –Sicuro, poverino! Ma se mi ponessi a narrare un paio soltanto delle sue storielle!

      E ne narrava alcune difatti, ad onta delle proteste che il professore affettava di fare.

      Una fra quelle storielle era graziosissima davvero e curiosa anche per la sua eccentricità.

      Si riferiva al grosso cane di Terranova, che accompagnava dovunque il professore come la sua ombra e per il quale in famiglia si avevano grandissime cure.

      La storiella rimontava ad un paio di anni ed aveva avuto origine da un singolare processo che per il corso di molti mesi era stato argomento di ardenti discussioni in tutto l'alto Friuli. Si trattava di una querela sporta contro il professore Sant'Angelo al tribunale di Udine da un notissimo prete di Collalto, don Giovanni Morganti, a proposito del diritto di proprietà sur una breve zona di prato, che trovavasi sul confine de' loro possedimenti. Era una prateria piccina, di poche centinaia di metri quadrati, che dava ogni anno uno scarsissimo raccolto di fieno e che, a giudizio della gente, non meritava certo il chiasso e le spese che i due litiganti avevano fatto. Ma c'era per questo la sua brava ragione. In quel campo pochi mesi prima un contadino, scavando una fossa, aveva trovato una piccola urna contenente dieci o dodici monetucce coll'effigie dell'imperatore Massimino, una fibula, una collana di ametiste e due aghi crinali, che al professore Mattia erano parsi un vero tesoro. Il prete Morganti, collettore arrabbiato di vecchie medaglie, e che in fondo sentiva una grande invidia per la bella fama del Sant'Angelo, non aveva più dormito i suoi sonni tranquilli. E avendo, tra antiche carte di famiglia, ritrovato certi documenti, che gli parevano dargli un titolo ad accampare de' diritti su quel pezzo di terreno, s'era affrettato a movere lite al professore.

      La lotta fu lunga. Gli avvocati-i migliori di Udine-moltiplicarono scritture e controscritture. I due litiganti ebbero a spendere di gran quattrini. Ma la vittoria infine rimase al Sant'Angelo.

      La sentenza del tribunale, se mise in regola la questione giuridica, non bastò a conciliare i due antagonisti. Il prete non si dette più pace e non lasciò occasione per manifestare il suo malanimo contro l'usurpatore. Questi dal canto suo se la godette a rispondere coi dispetti ai dispetti. E ne pescò di quelle che fecero montare il prete Giovanni su tutte le furie. Basti il dire che un bel giorno, per far rabbia a don Morganti, gli venne il ticchio di imporre al suo grosso terranova il nome di prè Zuan, cosa che fece ridere di cuore tutto il paese e fruttò al magnifico cane una rinomanza quasi maggiore di quella procurata da Alcibiade al suo col famoso taglio della coda.

      –Eh! ho ragione io se dico che i Sant'Angelo sono gente allegra! – concludeva la signora Chiara tutta gongolante nel vedere che un sorriso illuminava la bella faccia della giovane Lambertenghi.

      La signora Sant'Angelo provava una soddisfazione, nell'agire in tal guisa. Ottima di cuore e un po' facile a prestar fede a quello ch'essa soleva chiamare il volere del destino, aveva sentito di primo impulso, appena l'ebbe veduta, una viva simpatia per la nipote. Ne' suoi lineamenti severi, in quegli occhi pieni di pensiero, nella parola di lei misurata e dolce, le pareva di avere già indovinato il carattere della giovane. Certo in quell'anima la tempesta delle passioni doveva essere già passata implacabile, lasciandovi il segno del suo furore. Ma in quell'anima non poteva essere distrutta l'ingenita delicatezza di sentimento, che è la più bella qualità di ogni umana creatura. Tutto questo la signora Chiara era riuscita a comprendere osservando attentamente ogni atto di Loreta, pesando ogni sua parola, non lasciandosi sfuggire alcun particolare del suo contegno.

      La vita che Loreta conduceva era assai semplice. In pochi giorni aveva saputo perfettamente accordarsi alle abitudini regolate ed uniformi della casa. Di più, con tatto squisito, aveva subito cercato di mostrarsi premurosa e non inutile nelle bisogne domestici. Quando la signora Chiara accingevasi a qualche lavoro, Loreta prontamente si offeriva di darle mano. Se il professore esprimeva qualche desiderio concernente la casa, la giovane procurava subito di concorrere perchè egli fosse soddisfatto. Perfino, talora, ne' giorni che c'era gran da fare, o pel bucato o per i fittaiuoli che venivano a pagar le pigioni o per qualche forestiero che capitava a visitare il medagliere e le lapidi del professore, Loreta, ad ogni costo, voleva addossarsi una parte de' lavori che incombevano alla Vige.

      La vispa contadina però si ribellava. Non poteva permettere che quella signorina sciupasse le sue piccole manine bianche nell'attendere a certe cose. Mani da ricamare, mani da contessina. E poi, con quella salute che aveva, starsene al foco de' fornelli, starsene curva sulla tavola da stirare. Mai e poi mai!

      –Vige mia, lasciatemi fare. Mi ci diverto e mi fa piacere!

      Vige la guardava, la guardava fissamente, e comprendendo che le parole della giovane erano veritiere si guardava dal contraddirla più oltre.

      Ma quando, qualche volta, Loreta usciva a fare degli acquisti a Tricesimo od andava, accompagnata da Agnul col carrozzino a Udine, per visitare il suo amico e protettore don Letterio, Vige provava il bisogno di dire l'animo suo alla padrona:

      –Non è una donna quella lì, è un angelo! Buona, buona come il pane. Ha fatto una gran opera santa, signora mia, prendendola in casa.

      –Per buona, sì, mi pare.

      –E dev'essere stata così sfortunata! Guai a dirlo: è un grosso peccato! ma è proprio vero che sono i buoni quelli che hanno le maggiori disgrazie!

      –Ti narrò mai qualchecosa la signorina?

      –A me! si figuri! Che confidenza vuole che abbia per una povera serva come son io? Però ho indovinato ed ho anche udito…

      –Udito? Che cosa?

      –Eh! ma tante volte! Alla sera quando ella, signora, ed il professore son già coricati ed io passo, per andarmene a dormire, dinanzi alla camera della signorina…

      –Ebbene?

      –La odo di dentro a piangere sommessamente. E una volta anzi… – ho fatto male, lo so-ma, avendo visto ohe il lume era ancora acceso, presa dalla curiosità, ho anche guardato dal buco della toppa… Avesse visto! La povera signorina era inginocchiata dinanzi al suo letto e tenendo fra le mani un oggetto lucente, – che so? una croce, un medaglione… – lo baciava replicatamente, colla faccia tutta bagnata di lagrime. Certo qualche memoria de' suoi cari…

      –Certo, – fe' la signora Chiara. – Queste sono cose che provano ad ogni modo un animo buono ed affettuoso…

      –Altro che buono!.. Se sapesse la pietà che m'ha fatto!

      E l'ottima Vige, per poco fosse stata incoraggiata, quasi quasi si lasciava intenerire al solo ricordo di questi particolari.

      Ma la signora Chiara non gliene lasciò il tempo:

      –Tutto va bene… tutto va bene. Ma non va bene niente affatto di spiare, come hai fatto tu, dal buco delle serrature…

      La Vige chinò il capo tutta mortificata, buscandosi senza proteste quel piccolo rimprovero che sapeva bene di meritarsi.

      La signora Chiara non avrebbe del resto avuto bisogno alcuno dei racconti della sentimentale servetta per essere persuasa della grande bontà della sua povera parente, il cui carattere espansivo e cordiale le si veniva rivelando ogni giorno di più colle prove che Loreta le dava del suo attaccamento e della sua gratitudine. S'erano fatte amiche. Omai per la signora Chiara la compagnia della giovane era divenuta un'abitudine gradevolissima, di cui non si sarebbe privata che a malincuore. Erano pochi mesi dall'arrivo di Loreta e la vecchia signora la considerava già com'ella fosse stata sempre nella loro famiglia.

      Ora, che l'invernata scorreva rigida e che si era obbligati a starsene per intere settimane chiusi in casa, la giovane riesciva di vero conforto alla signora. Il professore Mattia, da quel rusticone che era, se ne stava adesso più che mai seppellito nel suo studio, intento a dar l'ultima mano ad una memoria Sulle antichità aquileiesi, che gli era stata richiesta dal Mommsen per una rivista tedesca. E le due donne solette nel tinello, al lume raccolto della lampada, passavano le loro serate lavorando: per lo più capi di biancheria e di vestiario, che la Sant'Angelo, secondo una sua antica abitudine, destinava ai fanciulli poveri della parrocchia. La buona signora, cogli occhiali sul naso, ferruzzava

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