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mamma, i tuoi presentimenti!

      –Già, già, lo so, tu li metti in canzone. Roba da vecchiette, che amano le fantasticherie… Ma intanto-voialtri gente seria, fìlosofoni che non credete a nulla di nulla, potete ridere quanto volete-certi presentimenti non fallano mai! E questa volta…

      –Ebbene, mamma, questa volta?

      –Sono presentimenti de' migliori! – fè la signora tutta allegra, fregandosi le mani.

      Il professore, dinanzi alla figura così placida, così serena di sua madre, sentì anche questa volta, come sempre nelle incertezze della propria vita, venire una tranquillità soave nel suo spirito:

      –Iddio voglia che sia così, mamma, – disse. E non ci pensò più.

      Intanto il giorno della venuta di Loreta era giunto e mezz'ora prima dell'arrivo del treno il professore Mattia trovatasi già in attesa alla stazione di Tricesimo.

      Passeggiava impaziente in su ed in giù dinanzi alla piccola casa, tendendo l'orecchio se si udisse il rumore del convoglio, affacciandosi allo stanzino ove il capostazione se ne stava curvo sull'apparato del telegrafo, per sapere se per caso fosse segnalato qualche ritardo. Intanto fuori, sulla strada, di là dallo stecconato dipinto di verde, Agnul stavasene curiosando anche lui, colla frusta fra le mani, accanto al cavallino che sonnecchiava.

      Il treno finalmente arrivò.

      L'unica persona che scese a quella stazione fu Loreta Lambertenghi. Ma se anche ve ne fossero state cento, il professore Mattia non avrebbe durato fatica a riconoscerla, tanto la sua figura era distinta e tanto rassomigliava al ritratto fattone da don Letterio Prandina.

      Era una donna ancor giovane, alta, bruna, molto pallida, dalle vesti di lutto semplicissime. Portava un cappello rotondo, di paglia nera, e sul viso una veletta grigia sotto la quale brillavano due occhi grandi e profondi.

      Scese rapidamente da una carrozza di terza classe e volse subito uno sguardo in giro come cercando qualcuno.

      Il professore Mattia si avanzò:

      –La signorina Lambertenghi… – chiese con voce un po' tremante.

      La ragazza ebbe un sorriso di piacere.

      –Sono io. E lei… il professore Sant'Angelo?

      –Sì.

      Si strinsero la mano non trovando subito altro da dirsi, con quella incertezza che non si scompagna mai da un primo incontro il quale avvenga in così delicate contingenze.

      –Ha fatto un buon viaggio?

      –Buonissimo; solo mi parve tanto lungo. Non vedevo l'ora di essere arrivata.

      –L'attendevamo anche noi con tanto desiderio. La mamma poi…

      –Sua madre! Come dev'essere buona!

      E uscirono dopo che il professore ebbe incaricato un guardiano della stazione di ritirare il bagaglio di Loreta e di recarlo poi in casa.

      Fuori, Agnul era già pronto. Il ragazzo seduto a cassetta colla frusta tra le ginocchia, spalancò tanto d'occhi a vedere la forastiera e nella sua grande curiosità dimenticò perfino di mettere la mano al cappello.

      –E presto! – disse il professore quand'ebbero preso posto.

      Il carrozzino partì velocissimo.

      Per qualche minuto nè Mattia nè la giovane dissero parola. Lei guardava intorno le belle distese de' prati già invasi dalla mestizia autunnale.

      –Che luoghi pittoreschi! – mormorò dopo un poco.

      –Sì, il paese è bello. Certo, adesso che l'autunno avanza, tutto apparisce più malinconico. Ma nella stagione buona…

      Erano giunti ad uno svolto della strada e sul colmo di un poggio apparve la casa dei Sant'Angelo, bianca, coi vetri luccicanti nello splendore del tramonto.

      –Ecco lì la nostra casa, – fe' il professore accennando col dito, – laggiù dietro a quei due grandi pini.

      –Ah! laggiù!

      –Sì: ed ecco mia madre, che ci sta aspettando. Infatti a piede del viale che saliva alla casa, fiancheggiato di vecchi pini, la signora Chiara, avvolta nel suo sciallino di lana scura e colla sua cuffietta nera in capo, li stava aspettando.

      Con un sorriso sulle labbra la buona donna si avvicinò al carrozzino quand'esso sostò, e affabilmente, con quel modo incoraggiante che concilia di primo acchito la simpatia, tese le mani a Loreta.

      La giovane balzò a terra, afferrò le mani della signora e con espansione, vincendo con uno sforzo la riluttanza di lei, gliele baciò replicatamente:

      –Come la ringrazio! come la ringrazio!

      La signora Chiara si strinse la ragazza al petto, dandole un bacio sulla bocca:

      –Ma che, ma che! Siate benvenuta nella nostra casa. Lassù c'è bene un posto anche per voi…

      Loreta, confusa, sorpresa quasi, da quell'accoglienza tanto affettuosa, si provò indarno a parlare. Le parole non le uscivano, mentre una lagrima le scorreva giù per le guance patite.

      La signora le cinse col braccio la vita e riprese il cammino verso la casa.

      –Aveva ragione Prè Letterio, – disse dopo un lungo silenzio la giovane, – aveva ragione quando mi scrisse che avrei trovato la bontà più grande…

      –Prè Letterio ci vuol troppo bene, – rispose la signora Chiara. – Non è bontà questa. È un dovere ed una gioia. Io spero che mi vorrete bene, e che sarete contenta in mezzo a noi.

      –Se sarò contenta!.. Dio è stato così pietoso verso di me, mandandomi questa grazia. Se vi vorrò bene?.. Come mai altrimenti!

      E nel trasporto sincero della sua gratitudine, altre cose la giovane soggiunse, ed altre molte ne avrebbe soggiunte se la signora Chiara non glielo avesse proibito. "Era momento di finirla adesso! Doveva riposarsi, doveva tranquillizzarsi che proprio il bisogno ce lo aveva. E poi già glielo comandava e intendeva di essere subito obbedita…"

      Tale fu l'ingresso di Loreta nella famiglia dei Sant'Angelo.

      IV

      Per quanto da una parte le accoglienze fossero state cordialissime, e per quanto dall'altra vi avesse risposto la più calda riconoscenza, certo, ne' primi giorni non potè completamente essere vinto quel vicendevole imbarazzo, che tratto tratto s'impadroniva così dei Sant'Angelo come di Loreta, e che tutti e tre riuscivano assai malamente a dissimulare.

      V'erano delle ore nella giornata-quelle specialmente che di solito sono consacrate alle intime confidenze familiari-in cui cotesto imbarazzo manifestavasi più molesto. Alla sera, quando terminavano la cena e si erano esauriti i soliti argomenti della chiacchiera giornaliera, facevasi assai sovente un improvviso silenzio fra que' tre personaggi. La signora Chiara andava a sedersi nella sua grande poltrona, in un angolo della stanza, che rimaneva quasi immerso nella penombra, accanto alla stufa dove già s'era acceso il primo fuoco; il professore si poneva a giocherellare col grosso cane di casa-un bel terranova dagli occhi intelligenti-che veniva a posargli la testa sulle ginocchia. Loreta rimanevasene al suo posto, pallidissima, collo sguardo fisso a terra, come assorta in una lontana visione. Sulla sua fronte bianca si sarebbe creduto di scorgere una nube di tristezza. E nel fissarla attentamente quasi s'indovinava uno sforzo ch'ella s'imponesse per celare il vero stato dell'anima sua.

      La signora Chiara pescava nelle proprie memorie, per rompere que' silenzi incresciosi, i vecchi aneddoti paesani, le burlette di cui in altri tempi era stato maestro il nonno Sant'Angelo, qualche strofetta allegra, di quelle che l'arguto vecchietto improvvisava ne' momenti di buon umore nella sua caffetteria di Tricesimo e che si citano ancora oggi nel Friuli insieme a' versi migliori di Pietro Zorutti.

      E quando Loreta sorrideva:

      –Eh! eh! – esclamava tutta soddisfatta la buona signora-casa Sant'Angelo è stata sempre casa di gente allegra. Visacci mai, neanche nelle ore cattive. E tutti così: il nonno non si dice; il babbo di Mattia, con tanti pensieri, allegro sempre anche lui. E Mattia come lo

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