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uno scienziato tagliato all'antica, poteva lasciarsi vincere da così stolte inquietudini. Egli che aveva sempre sorriso cinicamente a sentir narrare certe debolezze degli uomini: egli che non era mai riuscito a spingere più in là delle dieci pagine la lettura di un romanzo! Sciocchezze, sciocchezze! Puerilità belle e buone, che bisognava saper vincere. Altrimenti c'era da vergognarsene davvero!

      E da allora in poi mise quasi uno studio ad ostentare verso Loreta una allegra disinvoltura. Se il più lieve adito gli era offerto, non lasciava di metter fuori, con grande stizza della signora Chiara, i suoi predicozzi di filosofo per il quale la vita non ha più sorrisi. Si compiaceva a dirsi vecchio, a mostrarsi privo d'ogni illusione, a darsi delle pose di studioso infaticabile, assorbito interamente dalla passione de' libri.

      Ma molte volte non ci riusciva. Una parola, un gesto, una frase, lo tradivano. E per un momento sembrava che gli sfuggisse la coscienza della parte di commedia che imponevasi di sostenere.

      Così fu specialmente in un giorno memorabile, al principio di aprile, nell'occasione di una gita, che la signora Chiara aveva progettato da molto tempo di fare in unione alla Lambertenghi, e che sempre si era dovuto rimandare o per la stagione poco propizia, o per la salute malsicura della signora.

      Si trattava di una visita ad un antico palazzo, posto sulla riva destra del torrente Cormor, non lunge dal colle di Fontanabona, e del quale avevano avuto adito di parlare molto sovente nel corso della precedente invernata. Questo palazzo era una curiosità del paese, e il professore Sant'Angelo ne aveva fatto anche soggetto di un'interessante dissertazione storica, pubblicata alcuni anni innanzi dalla Rivista archeologica italiana.

      A giudicare da una lapide mezzo corrosa, immurata sotto l'arcata dell'ampio portone, l'edificio doveva essere stato eretto sul principio del secolo decimosettimo da un nobile udinese, sulle rovine di un'antica chiesetta fondata verso il 1330 dal patriarca Bertrando di San Genesio, sfuggito in quel luogo, quasi miracolosamente, da un'imboscata tesagli dagli armati di Rizzardo da Camino. Era una fabbrica solida e tetra, con due torri rotonde piantate agli angoli della facciata, nella quale aprivansi, fra i ricami dell'edera, otto grandi veroni sormontati alternatamente da stemmi gentilizi e da mascheroni chimerici. All'edificio principale addossavasi una specie di padiglione basso, di costruzione moderna, senza gusto di stile, abitato ora dalla famiglia del gastaldo. Innanzi all'ingresso principale del palazzo un'ampia braida, tenuta male, estendevasi in forma di un rettangolo, mostrando, sotto la invasione delle erbe alte, le tracce degli antichi vialetti disegnati capricciosamente, mentre di mezzo ad alcuni cespugli di bosso sorgevano quattro o cinque statue mutilate di deità campestri. Intorno, giù per i fianchi digradanti della collina, macchie di querciuoli, grappi diffusi di piante basse, cresciute liberamente: poi, giù a' piedi, di là dal letto petroso del Cormor, asciutto talvolta per lunghi mesi, la distesa vastissima delle piantagioni di sorgo, di trifoglio, d'avena, chiuse fra le file regolari dei gelsi e frastagliate dalle linee candide de' sentieri.

      Il palazzo era da molti anni disabitato. Assai di rado quando qualche forastiere veniva a visitarlo, il gastaldo andava ad aprire le griglie verdi dei veroni. Del rimanente il vecchio fabbricato conservava il suo aspetto di solitudine. Lo spazioso cortile dormiva in una grande calma claustrale. E soltanto verso la fine di ottobre, quando i contadini venivano a portare al gastaldo le loro derrate, animavasi per alcuni giorni, fino a che durava tra chiassose discussioni la consegna del grano, delle frutta e del vino.

      L'amministrazione era affidata dall'attuale proprietaria-una ricca signora veronese, maritata in Londra con un alto funzionario della corte-ad un avvocato di Udine, che solo due o tre volte all'anno faceva una visitina al gastaldo per la regolazione dei conti. In paese la padrona del castello era del tutto sconosciuta, e solo sapevasi che quel possedimento era venuto in sue mani per ragioni di eredità, quale unica parente superstite della famiglia dei Morò-Casabianca, cui il palazzo e le terre circostanti avevano appartenuto fino dal principio del secolo passato.

      L'ultimo dei Morò-Casabianca, che aveva abitato il castello, era stato il conte Sebastiano, e durava in tutto il circondario la memoria di questo gentiluomo, il cui nome era congiunto ad un doloroso dramma domestico, intorno al quale la fantasia dei contadini aveva immaginato le più bizzarre leggende.

      –La storia dei Morò-Casabianca bisogna sentirla non già dal mio figliuolo, – diceva la signora Chiara a Loreta Lambertenghi, – perchè quello lì non vuol saperne di certe poesie. Bisogna chiederne alla vecchia Mariute, la nonna del nostro Agnul, che è nata nel palazzo e ci vive da ottanta anni…

      –Eh! grazie tanto! La vecchia Mariute ve ne racconta di quelle! – soggiungeva il professore. – È una povera matta che sogna ad occhi aperti.

      La signora Sant'Angelo sorrideva anche lei. Ma tentava tuttavia di difendere questa vecchierella, ch'era tra le sue protette. Ogni anno per Natale, poi al principio dell'estate, aveva l'abitudine di mandarle qualche oggetto di vestiario e qualche quattrino. E la vecchia contadina, ch'era un po' parente alla famiglia del gastaldo e viveva in una casetta colonica presso il palazzo, gliene serbava la maggiore riconoscenza.

      La gita al palazzo Morò-Casabianca la fecero in un bel pomeriggio di aprile partendo di casa verso le due ore. Nel carrozzino guidato da Agnul avevano preso posto la signora Chiara e Loreta. Il professore Mattia precedeva in un altro legnetto col conte Leonardo Mangilli, che aveva voluto essere della partita anche lui.

      Il Mangilli era quel giorno di allegro umore, e durante la gita non aveva lasciato un momento di scherzare:

      –Oggi, professore mio caro, non vi sembrerà vero di montare in cattedra e di tenere la vostra brava lezione di archeologia ad un pubblico tanto gentile. Ah! professore fortunato!

      Ma il Sant'Angelo era tutt'altro che in vena di scherzi. E a quelle allusioni tagliò corto bruscamente, mostrando con tutta chiarezza che non gli piacevano affatto.

      La visita al palazzo interessò vivamente Loreta. Il gastaldo, visto appena il professore, era venuto con molta premura a porsi agli ordini degli ospiti e gli aveva guidati nel giro dell'edificio. Avevano percorso ad una ad una tutte le vaste sale dai soffitti affrescati, arredate di antichi mobili massicci recanti lo stemma del casato; eran saliti per le ripide scale a chiocciola negli stanzoni delle due torri, nudi, spogli, freddi per l'aria frizzante che entrava dalle finestre ogivali, munite di grosse inferriate. Poi, più a lungo, eransi fermati in un salotto, nell'ala meridionale della fabbrica, ricco di particolare interesse per le molte curiosità storiche che racchiudeva.

      Era una stanza spaziosissima rischiarata da tre grandi veroni, prospicienti sulla vallata del Cormor; ma tetra, coll'enorme camino dalla cappa adorna di barocche sculture, e co' suoi mobili di noce, dalle sagome severe, coperti di antico broccato veneziano. Sulle pareti spiccavano, chiusi in nere cornici, quattro grandi dipinti storici, attribuiti, per il loro carattere di correttezza belliniana, a qualche pittore del 500, uscito dalla scuola di Pellegrino da San Daniele. In essi il fondatore aveva voluto fossero raffigurati i momenti principali della vita del prode Bertrando di San Genesio: la disfatta di Rizzardo da Camino sotto le mura di Sacile, la consacrazione della chiesa maggiore di Venzone tolto a' Goriziani, l'erezione del castello di Moscardo a tutela delle valli carniche, e il soccorso dato a' poveri dal pio patriarca nella carestia che afflisse il Friuli nel 1348. – In un angolo, sopra una colonna di legno scolpito, un busto in marmo, opera non priva di merito artistico: l'effigie del conte Sebastiano, l'ultimo dei Morò-Casabianca.

      Lì il gastaldo gli aveva invitati a riposarsi dopo avere avanzato per le signore due delle vecchie sedie a bracciuoli presso i grandi veroni. Il conte Leonardo celiava intanto col professore intorno al pregio di questi logori "nidi di talpe" ai quali nella sua posa d'uomo utilitario negava qualsifosse attrattiva. Poi il discorso era caduto, naturalmente, sulle vicende dei Morò-Casabianca.

      –La leggenda del castello!.. – esclamò il Mangilli accentando colla voce grossa questa frase melodrammatica.

      –Me ne dispiace per voi, conte mio, ma non è leggenda niente affatto. Pura storia e tragica anche troppo…

      E la riepilogò brevemente.

      La storia era del resto semplicissima. L'ultimo abitatore di quel palazzo, il conte Sebastiano Morò-Casabianca, gentiluomo campagnuolo vissuto con fedeltà rigorosa secondo le tradizioni de' suoi maggiori, dividendo il proprio tempo tra utili studî di

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